StOrge Non Voglio Il Tuo Amore

StOrge Non Voglio Il Tuo Amore

Capitolo 1. -PHILIA-

^^^LA STORIA CONTIENE:^^^

^^^Scene di sesso esplicito. ^^^

^^^Linguaggio volgare. ^^^

^^^Concetti religiosi e spirituali. ^^^

^^^Comportamenti/atti abusivi e violenti. ^^^

Le setole del pennello restavano appena sospese sulla tela innevata di niente, nuda e scarna, colma di vuoto, immensa di nullità.

La mano dell'uomo fremeva titubante, il cuor suo palpitava pesantemente nel dubbio, e la mente era simile a una pianura annebbiata.

Non c'era niente, nessun elemento, nessun volto e nessun paesaggio da cui prendere ispirazione.

I fari di luce che in quella notte lo accecarono, gli rendevano difficile vedere con chiarezza ciò che gli stava di fronte.

La neve che gli giaceva silente sul viso, il rumore croccante delle suole sull'asfalto, il suono delle acute sirene, lo straziante lamento del figlio e le parole che pendevano confuse e sconnesse dalle labbra dei paramedici.

Era una caramella sul palato che non perdeva gusto, anche se masticata e ingoiata, l'asprezza e l'acidità restavano vivide e pungenti sulla lingua.

Loris guardò con delusione la tela, si reputò incapace.

La sua ispirazione dimorava nel cimitero, la sua fantasia era stata resa cupa, e un grande blocco incombeva su di lui quasi fino a inghiottirlo.

Frustrato dalla sua inabilità di disegnare, lasciò il pennello e sospirò arreso.

La stanza era ricca di silenzio, l'uomo si trovava al centro di un disordine mentale piuttosto che d'arredamento. C'era polvere ovunque, si respirava cera e umidità, acrilico e legna, carta da parati e pagine di vecchio giornale.

Dalla finestra non entrava aria, le tende erano rigide e assenti d'animo, proprio come lui. C'era molta più vita nelle ragnatele presenti negli angoli, i ragni che con il tempo avevano tessuto le loro dimore, rendevano la stanza nettamente viva.

Mentre il pittore solitario meditava sulla propria impotenza contro il blocco, della sua inabilità e del talento smarrito, udì la porta di casa chiudersi.

Il tintinnio di chiavi che interruppe la sua meditazione, venne poi accompagnato da una lunga serie di passi: leggeri per il soggiorno, più pesanti sulle scale, e nuovamente lenti e lievi.

L'uomo uscì dal proprio rifugio, cogliendo il giovane scolaro lungo il corridoio in via verso la camera da letto, dove bramava di recarvisi già tra i banchi della scuola.

Addosso aveva un maglietta chiara con il colletto alto che gli nascondeva l'intero collo, portava dei jeans stretti e scuri con ai piedi le solite scarpe piatte e semi slacciate. Reggeva lo zaino sulla spalla sinistra come l'oggetto più prestigioso del mondo, sebbene carico di materie, strozzava il manico con timore di esserne privato da un momento all'altro.

Pareva un vampiro con la sua pelle lattea ed estranea al sole, i suoi capelli erano un contrasto a questa, poiché tetri come la pece.

Anche il suo occhio era scuro, non sfuggì di certo a quello del padre, che preoccupato chiese subito cosa gli fosse successo.

Il ragazzo rispose senza alcuna esitazione, confessò al padre la ragione per cui avesse l'occhio scuro.

«Mi è arrivata una palla in faccia durante educazione fisica»

«Strano, educazione fisica ce l'hai il giovedì e il venerdì» rispose l'uomo, al corrente di tutti gli orari scolastici del figlio. Issò un sopracciglio e attese una risposta del ragazzo, la quale non tardò ad arrivare.

«Il professore era assente, così ci hanno diviso in diverse classi, io sono finito nella quarta, che a quell'ora stava svolgendo educazione fisica» il figlio pregava in cuor suo che il padre avrebbe creduto alla menzogna edificata con accuratezza lungo il marciapiede. Ci aveva impiegato tempo per poterla pianificare, riconosceva il fiuto attento del genitore e la sua abilità nello scrutare anche la più piccola beffa.

Non doveva mostrare segni di debolezza, come fuggire con lo sguardo, grattarsi smaniosamente la pelle attorno alle unghie o mordersi il labbro. Ciò avrebbe reso chiara la recita, tale atteggiamento lo avrebbe di certo esposto e le conseguenze sarebbero state più che amare.

Loris Anderson era un uomo retto e severo, detestava il bugiardo e considerava un criminale chiunque trovava facile proferire falsità come bere acqua.

Ma la buona sorte benedì il caro William, suo padre credette alla bugia e non sollevò maggiormente il tappeto. Inoltre, non voleva dubitare del proprio figlio, era vergognoso anche solo pensare di aver cresciuto un bugiardo.

«Va tutto bene?» gli chiese cambiando completamente discorso, sollevando l'animo del ragazzo, che annuì senza aggiungere altro e si apprestò a ritirarsi nella sua stanza per alleggerirsi da quella nuvola di pressione.

«Presto ti chiamerò per mangiare» disse l'uomo avviandosi verso le scale che lo avrebbero condotto al piano di sotto, dove stava la cucina. Ma prima di farlo, si accertò di chiudere a chiave la porta del suo studio.

Era un tempio sacro, un luogo di culto e meditazione, non voleva che suo figlio ci mettesse piede, là dentro erano presenti oggetti fragili persino al sol contatto degli occhi. Inoltre egli dipingeva per un soggetto le cui fantasie lasciavano desiderare, un uomo che conduceva una vita lussuosa presso un'amabile villetta fuori dal centro della città.

Il suo nome era Gavriel Heinrich, un uomo che si era follemente innamorato dell'arte di Loris, la considerava unica ed espressiva, astratta ma realistica.

«Tu riesci ad alterare la realtà, facendola però rimanere normale»

Gli diceva.

Per questo lo aveva assunto come suo pittore personale, egli lo riceveva ogni giorno per farsi ritrarre.

Era un lavoro modesto dacché a fine di ogni servizio tornava a casa con l'oro in bocca, ma in realtà lo detestava.

Il figlio rispose a stento entrando nella camera, non aveva riguardo per quella stanza segreta a cui suo padre teneva molto, chiuse dietro di sé la porta e si levò di dosso il peso dallo zaino dalla spalla.

Quando si gettò sul letto, sospirò esausto, sfogando in un lungo e largo sbadiglio tutta la stanchezza e la fatica accumulata in giornata.

Nel mentre il padre stava già aprendo il pacco di pasta da preparare, sapeva che non avrebbe mangiato, pensava di coricarsi a stomaco vuoto come al solito, non gli piaceva andare a letto con lo stomaco pesante.

Avrebbe mangiato solamente il figlio, perciò misurò poca pasta, poiché quest'ultimo non era abituato a cibarsi tanto.

Non era amante del cibo, a essere sinceri, non era molto amante di niente. Era un ragazzo che viveva la vita a giornata, come una foglia al vento, sbatacchiata qua e là senza sentiero e rotta. Dedicava il proprio interesse solo verso le piccole cose che gli piacevano.

Il padre al contrario, era un uomo in un quadro astratto, un contrasto di vie e colori. Diretto ma spesso indeciso, integro ma fragile, sensibile eppure capace di essere freddo, preciso ma qualche volta svogliato, intelligente eppure ancora conforme agli statuti tramandati dal suo vecchio padre.

Si fecero le venti quando la pasta finì nel piatto, calda e fumante, si trovava pronta a tavola per essere consumata.

L'uomo chiamò il figlio per invitarlo a scendere e accomodarsi, quest'ultimo uscì dalla propria stanza e si presentò in cucina in pigiama e con un asciugamano attorno al collo per cogliere le gocce d'acqua che stillavano dai capelli bagnati.

Dopo un breve sonnellino, si era messo con la testa sotto la cabina della doccia. Era troppo stanco per farsi un bagno completo, si sarebbe appisolato sotto l'acqua come lo scorso martedì.

«Pasta? Ancora?» si lamentò sedendosi di fronte al piatto poco invitante ma ben presentato.

«Quando è stata l'ultima volta che l'hai mangiata?» ribatté il padre alquanto offeso.

«L'altro ieri a cana e l'altro ieri ancora per pranzo» rispose il ragazzo.

Dunque il padre issò gli occhi e accolse la lamentela del figlio, gli promise che lo avrebbe presto portato a mangiare presso un ristorante.

Ciò fece sorridere il giovanotto, che da tempo non metteva piede in un luogo così raffinato assieme al genitore.

"finalmente" pensava.

Fece il primo boccone di pasta senza alcuna smorfia in volto, nella sua testa c'era solo quel brillante edificio che sorgeva sul ciglio della strada, le cui porte, una volta aperte, sprigionavano un succulente profumo di fritto e saltato. Era un ristorante di un invidiabile qualità, in molti provavano a replicarlo ma nessuno poteva sedersi allo stesso livello del "Mezzanotte".

Ma la breve allegria fu improvvisamente portata via dal suono del campanello, il ragazzo s'incupì, perché sapeva perfettamente chi fosse. Tuttavia ci sperò e pregò si trattasse solo della solita vicina noiosa, la signora Redshank, ma a giudicare dalla furia e l'insistenza con cui venivano molestati la porta e il campanello, dubitò che si trattasse di lei.

La pasta si fece leggermente amara nella bocca, calò gli occhi all'olio di oliva che stillava dalle rigature delle penne, e attese con ansia la tempesta pronta a irrompere in casa sua.

Il padre si avvicinò alla porta, ignaro di quel che tormentava suo figlio, e si trovò dinanzi una donna irrequieta in compagnia di un giovane ragazzo, entrambi emanavano aria di minaccia e guerra.

«Sì, lui è suo padre» pronunciò il giovane, la donna erse gli occhi verso Loris e cominciò a sbraitargli addosso con tono arcigno e violento.

«Lei si deve vergognare! Lei e soprattutto quel maleducato di suo figlio! Guardi come ha ridotto il mio Michael, sembra stato pestato da una gang di teppisti!»

Loris guardò il volto del giovane, gonfio come chi lapidato alle porte della città per aver commesso un reato, chiunque lo avesse conciato in quella tremenda maniera, era di certo all'acme della furia.

Pugni e graffi, neppure le braccia erano state risparmiate, esse erano coperte di lividure e morsi.

«William non ne sarebbe capace, magari suo figlio si è confuso con un altro ragazzo» rispose Loris, facendo notare le differenze corporee di entrambi i giovani ragazzi.

William era magro e non molto alto, Micheal invece godeva di due gambe robuste e di una corporatura media. Era folle credere che William fosse riuscito a prendere a sberle un ragazzo due volte più grosso di lui.

Ma la donna, anche davanti a questa osservazione, gonfiò il petto e sollevò il dito.

«Certo, ovviamente, prenda pure le sue difese. Ma sappi che la prossima volta vi trascinerò in tribunale! Mio marito è un avvocato e mio fratello lavora nelle forze dell'ordine, ciò che suo figlio ha commesso è un reato! Potrei farlo arrestare per aggressione!»

L'uomo titubò, non sapeva come replicare, non poteva giustificare l'azione di suo figlio davanti al viso percosso del povero giovane. Tutto ciò che gli restava da fare era scusarsi umilmente e chiudere la porta in faccia ai due.

«Le chiedo scusa, non si ripeterà mai più, glielo assicuro» disse, ma ciò lasciò la donna poco convinta, ferita nell'orgoglio e oltraggiata, arricciò il naso e assieme al figlio tornò nella propria auto.

L'uomo chiuse la porta e guardò attraverso lo spioncino le due serpi allontanarsi, quando scomparvero dalla sua veduta, si voltò e tornò in cucina.

Il figlio era al corrente di tutto, aveva visto e udito, ma non si atteggiò come chi stava per essere interrogato.

L'uomo evocò il nome del ragazzo, il suo tono lo fece fremere di tensione, pensava se doverlo affrontare o fuggire.

Ora era chiaro di come si era procurato quell'occhio, Loris si adirò molto, suo figlio gli aveva spudoratamente mentito in faccia.

«Tu credi che io sia stupido?»

Domandò l'uomo camminando verso la cucina, il figlio deglutì il duro boccone di pasta e scosse il capo.

«Come ti sei procurato quell'occhio nero?» chiese, questa volta il figlio dovette confessare.

«È stato Micheal»

«Perché?» domandò Loris.

«Perché mi ha provocato, ecco» disse posando giù la posata.

Il padre gli afferrò il polso e gli agitò bruscamente la mano.

«Quante volte ti devo dire di non alzare mai queste mani? Quante?» ringhiò furioso.

Il ragazzo condusse distante il proprio sguardo colpevole e si scolpò con le più mediocri scuse che conosceva.

«Tu non sai le parole che quello mi rivolge, per questo parli così» ribatté sfilando il polso dalla presa del padre.

«William così rischi di essere sospeso o addirittura espulso!»

"La sua giovane età e la sua immaturità gl'impediscono di parlare e agire come un adulto, non è di certo colpa sua se è dotato di poca pazienza, ma ciò non lo rende innocente"

«Lo so, lo so!» ribatté il giovane.

«Allora perché continui ad atteggiarti come un bullo? Perché ogni volta che mi prometti che non si ripeterà più, alla fine si ripete?»

chiese, quell'accusa fece ribollire il ragazzo, la cui pelle, pallida com'era, fiorì in un rosso acceso. Sapeva di non essere lui il bullo, anzi, egli era la vittima. Per anni era stato bersaglio di oltraggi e percosse, sempre nel mirino di Micheal, ragazzo prepotente e viziato, dalle maniere ardue e il carattere superbo.

Si erse dalla sedia, respinse la mano del padre e colto dalla frustrazione scalciò la sedia.

«Non sono io il bullo! Micheal lo è, si è sempre fatto beffe di me fin dalla prima! Io non ce la facevo più a sopportarlo, a reggere tutto! Meritava un po' di botte, non è altro che un maledetto omofobo del cazzo!»

Ma ahimè, poiché preda della furia, non badò alle proprie parole e realizzò quanto compiuto solo finita la frase.

L'uomo sussultò sconvolto per il linguaggio volgare del figlio, quest'ultimo annegò in una vasca di vergogna, la lingua finì sotto i denti e gli occhi calarono pesantemente al pavimento. Il cuore fece un salto fuori dal petto e si celò, l'anima abbandonò il suo corpo e la sua ombra si ritirò sotto un sasso.

Il padre si alzò dalla sedia, era confuso da quella parola e sperava di aver udito male.

La riciclava nella mente, la interpretava e la ripassava come se ne avesse le lettere davanti.

«Omofobo?» pronunciò con enorme ribrezzo.

«Sì, cioè no, intendo razzista...è un razzista lui, mi sono confuso» balbettò il ragazzo, torcendosi l'asciugamano al collo e indietreggiando.

«William, sei gay?» chiese Loris, disgustato anche dalla sola parola, difatti gli pesava sul palato, gli causava un bruciore simile all'acido.

Il giovane non sapeva come giustificarsi, non vi era bugie che poteva dire, suo padre fiutava qualsiasi menzogna e non avrebbe tollerato un'altra bugia.

«No, assolutamente, no io non lo sono...però, che cosa ci sarebbe di sbagliato?» chiese chinando il capo, non aveva il coraggio di vedere l'espressione sul volto di suo padre e sarebbe morto pietrificato se lo avesse fatto.

Persino la pasta si raggelò, il pavimento invece si fece bollente e gli arti del giovane vacillavano come carta.

L'uomo delirò, gli mancò il fiato e cominciò a viaggiare con la mente.

Temeva che il figlio fosse stato corrotto dal diavolo, che quest'ultimo fosse riuscito in qualche modo a iniettargli nel cuore desideri perversi e immorali.

«Parlerò con il pastore» concluse, dopodiché si avvicinò al ragazzo e lo abbracciò.

«Chi ti ha messo questa idea in testa? Eh?» domandò portando le mani alle gote del ragazzo, confuso dall'atteggiamento del padre, ma non aveva coraggio di opporsi o difendere la propria identità.

Amava i maschi, li trovava interessanti, gli facevano venire le farfalle allo stomaco, il viso di un bel giovanotto lo rendeva incapace di parlare e persino di camminare.

Nessuno gli aveva messo quelle idee in testa, nessuno gli aveva dato scelta.

Era parte della sua indole più pura, nata dal cuore dalla nascita, ma riconosciuta e resa chiara solo una volta incontrato il Romeo della sua Giulietta.

L'Adamo alla sua Eva, l'Eros della sua Psiche.

Ma il suo nome non era di un personaggio di un racconto, il suo vero nome era Adric O'moore.

«Nessuno»

Rispose.

«Stai tranquillo, cercheremo una soluzione, okay? Tuo padre è qui, non temere»

Baciò il figlio sulla fronte e lo strinse tra le sue braccia, timoroso che se non avesse agito come buon padre, il diavolo glielo avrebbe presto portato lontano.

«Il pastore saprà cosa fare, prevenire è meglio che curare» disse.

Era molto fiero di essere seguace del signor David, Loris lo considerava un vero uomo di Dio, abile e devoto nel mestiere.

William arricciò leggermente il naso e serrò i denti, non aveva potere su suo padre e non gli era concesso esprimersi come desiderava. Quell'abbraccio era una gabbia da cui non poteva uscire, Loris lo nutriva di un amore nocivo che non faceva altro che crescere nel tempo.

"Perché ho parlato?" pensava.

Ricambiò l'abbraccio e si scusò con l'uomo per quanto accaduto a scuola.

Ma il padre non covava più alcun rancore per quello, c'era ben altro nella sua testa, la paura di perderlo e vederlo finire come la madre lo preoccupava assai di più di una espulsione.

Quando il sole calò e il cielo si fece nero, le lampade a casa Anderson si spensero lasciando stanze e corridoi bui.

Loris gettò dell'acqua sul fuoco del camino, si accertò poi che ogni porta fosse appropriatamente chiusa e prima di concedersi riposo, entrò nella stanza del figlio.

Era sua abitudine ormai, accertarsi ch'egli respirasse prima di andare a coricarsi.

Si avvicinava cautamente al letto del giovane, portava un dito sotto le sue narici o controllava che il petto s'innalzasse e calasse regolarmente.

Quando era certo che respirava, il cuor suo trovava pace e poteva andare a dormire.

Si recò nella sua gelida stanza, non dovette cambiarsi dal momento che indossava già indumenti comodi.

Si ritirò tra le coperte, lesse qualche salmo, e infine posò la testa sul morbido cuscino.

Il petto calò e un soffio di stanchezza fumò dalle sue narici, era stanco e bramava di passare una notte serena.

Ma ben presto avrebbe dovuto fare i conti con i soliti incubi, le ombre e le voci del passato. Essi non erano pietosi e non gli avrebbero concesso un buon riposo fino al sorgere del sole.

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