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Aglio & Fiori

𓆩I𓆪

^^^𓆩LA STORIA CONTIENE:^^^

^^^Splatter. ^^^

^^^Scene di sesso. ^^^

^^^Linguaggio volgare.^^^

^^^Comportamenti e atti abusivi. ^^^

...☽CAPITOLO 1. DALIA☾...

Gigliola non possedeva amici, ne aveva solo una e il suo nome era Dalia.

Dalia per lei non era una migliore amica, né tanto meno una figura materna.

Gigliola considerava quella strampalata ragazza estroversa come parte di sé, come una gemella le cui membra non si erano mai divise dalle sue.

L'amore che aveva per lei poteva far collassare il cielo e le sue stelle, poteva far ribaltare monti e asciugare oceani. Erano unite da un legame abissale, l'occhio di una vigilava l'altra e non esisteva montagna così alta che avrebbe potuto mettersi tra di loro.

Si coccolavano sotto il chiarore di un lampione la cui luce lampeggiava lungo un ponte, sole sotto la veglia della luna e gli occhi delle stelle.

Si facevano il solletico a vicenda, ridacchiavano scodinzolando le punte dei loro nasi e si raccontavano a vicenda la propria giornata.

«Il signor Markley mi ha pagata anche se non abbiamo fatto nulla, è di buon cuore quell'uomo, te l'ho detto» disse Dalia.

«Secondo me ha solo bisogno di qualcuno con cui parlare, non è il sesso quello di cui ha davvero bisogno» rispose Gigliola, meno esperta nel mestiere, come si vuol dire, eccelleva di più nella teoria che nella pratica.

«Non sono una dottoressa, ma posso dire che il sesso è la cura per ogni malattia» ribatté imitando la voce di un vecchio saggio maestro, strappando all'amica un tenero sorriso.

«Allora sbrigati e vai a curare i pazienti malati di cancro» disse.

Era notte fonda, non si aggirava anima viva e le loro voci sembravano le uniche sulla terra. La loro presenza illuminava la via, rendeva quel ponte vivo.

Avrebbero preso un taxi oppure si sarebbero appisolate in un ostello dove passare la notte, dopotutto erano giovani e colme di vigoria.

Ma giunse silenziosa e lenta, una lunga auto scura.

Vide le ragazze e le raggiunse, accostò alla loro destra e calò giù il finestrino rivelando a loro il suo viso chiaro e privo di sonno.

«Siete ancora disponibili?» domandò giulivo.

Dalia, i cui occhi attenti avevano visto l'affascinante carrozza scura che il giovane uomo possedeva, si tese verso di lui e con animo nobile e gentile, cantò a voce limpida che sia lei che la compagna fossero più che disponibili.

Il giovane uomo, estasiato dalla bella voce della ragazza e dalla sua bellezza, la guardò e poi dedicò una lesta occhiata anche a quella dietro.

Dalla postura incerta e il viso d'angnello, capì subito che fosse la più timida delle due.

«Quanto per ciascuna?» chiese.

«Cinquecento a testa» rispose lei, sapendo che il denaro non fosse di certo un problema, riuscì a riconoscere il costosissimo profumo che l'uomo indossava e non le sfuggì ovviamente l'orecchino d'argento che portava sui lobi di entrambe le orecchie.

Era il riflesso del benessere, frizzante e pulito, figlio di papà.

La ragazza non se lo fece nemmeno dire, aprì lo sportello anteriore e salì a bordo dell'auto.

Gigliola fece lo stesso, anche se stanca, decise di accompagnare l'amica.

Potè subito notare che lo specchietto fosse assente, ma pensò che fosse rotto, e che il ragazzo lo avesse messo da qualche parte per poterlo fare riparare.

Il viaggio ebbe inizio, il tragitto a detta di Gigliola sarebbe dovuto essere abbastanza corto, ma quando si addentrarono in periferia questo pensiero l'abbandonò. Le luci della città si fecero piccole, così come le abitazioni e le segnaletiche.

Erse il profumo di concime, Gigliola cercò di curiosare fuori dalla finestra ma il buio inghiottiva tutti i campi e le cascine.

«Siete giovani, quanti anni avete?» chiese l'uomo, la cui voce non si era fatta sentire dall'inizio del viaggio. Fu proprio un sollievo per Dalia, stava cominciando ad annoiarsi.

«Io ventitré, mentre la mia amica ne ha compiuti diciannove la settimana scorsa» disse.

«Chiedo per curiosità, a che gruppo sanguigno appartenete?» chiese ancora.

«Che ne so, non mi porto dietro le mie carte mediche» rispose Dalia, ma per nulla turbata da quella insolita domanda. Gigliola al contrario, la trovò assai ambigua, ma lasciò scorrere, ne aveva incontrati molti di clienti bizzarri, e ognuno di loro con le proprie fantasie e interessi.

«Vivi davvero molto lontano» disse Dalia, ma l'uomo le assicurò che mancava davvero poco alla destinazione.

Giunsero presto in un cantiere abbandonato, le due ragazze si aspettavano di veder sorgere una grande e grossa villa da qualche angolo del vasto campo, ma nulla di simile sembrava essere presente in quel luogo dimenticato.

«Scendi» ordinò.

Dalia e Gigliola fecero per scendere dal mezzo quando però la più giovane venne fermata.

«Tu dopo»

dichiarò l'uomo guardandola.

Gigliola e Dalia non erano abituate a lavorare da sole, accadeva raramente, ciononostante non fecero proteste ed esaudirono la richiesta del cliente.

«Hai paura di andare di traverso con due grandi bocconcini come noi?» scherzò Dalia.

«Mi piace godermi un pasto alla volta» rispose l'uomo.

In fine entrambi si addentrarono nell'oscurità verso il cantiere, l'uomo sembrava conoscere bene il posto, avanzava deciso e senza timore di cadere. Dalia al contrario, si aiutò con la torcia del telefono e si tenne stretta al braccio del cliente.

Nell'attesa, Gigliola prese a gingillare con il ciondolo della sua adorata e cara nonna, mancata solamente pochi mesi fa.

Ne sentiva molto la mancanza, e guardare quel ciondolo la faceva sentire accanto a lei.

Baciò l'oggetto tondo e dedicò una breve preghiera alla donna, dopodiché lo aprì e restò a guardare con malinconia l'immagine della vecchia.

Bella fuori e giovane dentro, sembrava un fiore che rifiutava di appassire.

«So che ciò che faccio non ti rende fiera, nonna cara. Però è l'unico modo che ho per sopravvivere» disse.

Era fuggita di casa dopo una disputa con il padre, da quel giorno, si promise che gli avrebbe dimostrato che sarebbe riuscita a cavarsela. Ma la vita si era fatta molto più ardua di quanto credeva e il mestiere più antico al mondo sembrava l'unica maniera per farcela.

Grazie al cielo però, aveva Dalia al suo fianco.

Era grande, la vita sembrava non avere potere su di lei, anzi, era Dalia stessa a domarla. Non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, affrontava tutto con grinta e sorriso.

Con lei al suo fianco, Gigliola non aveva nulla di cui tenere.

Assolutamente nulla.

«Giglio! Gigliola scappa! Scappa!»

Irruppe improvvisa la voce esasperata della compagna.

«Esci dall'auto!» strillava.

Emerse dall'oscurità come un morto resuscitato, l'aspetto di prima sembrava averla abbandonata nel cantiere.

Le sue calze nere pendevano strappate, il suo viso bagnato di trucco spiccava dalla sua carnagione lattea. Era priva del top e addosso indossava solamente gli slip, si tolse all'ultimo le scarpe per poter correre più veloce verso il veicolo.

«Dalia? Dalia che succede?» domandò Gigliola, confusa e incerta su quel che fare.

Stava accadendo tutto troppo in fretta e non riusciva a processare quanto stava avvenendo attorno a lei.

Alle spalle della compagna comparvero scure figure, ne riuscì a contare quattro ma non poté vedere i loro volti.

«Sono dei vampiri, cazzo! Devi scendere, dobbiamo andarcene! Sbrigati Gigliola!»

Quando udì quella parola, Gigliola fremette tutta e ogni capello le si raddrizzò.

Il sangue si fece freddo e il cuore schizzò via dal petto, venne quasi colta dal terrore e presto avrebbe perso conoscenza. Ma Dalia aprì la portiera dell'auto e riuscì a trascinarla fuori reggendola per il polso.

Gigliola non era lesta a correre, aveva le gambe corte ed esili e la paura le limitò ogni movimento, dopo un breve pezzo di terreno, la ragazza cedette e cadde dietro la compagna.

«Dalia! Dalia non lasciarmi qui per favore! Aiuto!» urlò spaventata, si era già rassegnata e aspettò solo che uno dei vampiri la prendesse.

Ma Dalia non l'avrebbe mai abbandonata.

Tornò indietro per aiutare l'amica, ma quando le tese il braccio, il suo intero corpo collassò pesantemente a terra come se l'anima l'avesse improvvisamente abbandonata.

E così era.

Era stata raggiunta da un proiettile, sparato dall'arma che il giovane uomo con gli orecchini d'argento impugnava.

Gigliola non aveva ancora compreso quello che era successo, non aveva capito di aver appena perso metà di sé.

I quattro giovani uomini la raggiunsero, non si erano neppure sforzati di correre, non era necessario che sprecassero fiato, sapevano che le avrebbero prese.

Il giovane uomo si avvicinò al corpo di Dalia e la guardò quasi con dispiacere.

«Peccato, era anche carina» disse fumando dalle narici nuvole chiare di tabacco.

Gigliola restò inerme a fissare il corpo della compagna riversato a terra, lì immobile in mezzo i fili d'erba. Evocò il suo nome, convinta che le avrebbe risposto di lì a breve.

Ma Dalia non le rispose, non alzò nemmeno lo sguardo verso di lei per dimostrarle che l'aveva sentita.

Il giovane uomo tese l'arma e la puntò verso la ragazza, dopodiché sparò ben sei colpi dritti alla sua testa per assicurarsi che fosse definitivamente morta.

Fu allora che Gigliola capì. Capì finalmente in quale situazione si trovava e comprese che Dalia era appena morta davanti ai suoi occhi.

«Resti solo tu, piccola» ridacchiò chinandosi verso di lei.

Gigliola non lo badò, restò a guardare la testa sanguinante della compagna e assalita da un tremendo dolore, scacciò uno straziante urlo che le costò le corde vocali e tutta l'aria nel petto.

Fece il nome della compagna ma questa non rispose, cercò di scuoterla per farla tornare ma fu tutto inutile, e se ne rese conto solo quando la vide camminare lontana verso il vasto campo.

Avanzava di spalle, spedita come se già a conoscenza della sua nuova destinazione. Gigliola restò a guardarla e tentò di raggiungerla, ma quando si alzò sulle gambe, il giovane uomo la colpì con violenza sulla nuca con il calcio della pistola stordendola sul colpo.

Confusa e indebolita, la ragazza restò con il viso schiacciato a terra e benché sola, spaesata e senza più alcun angelo a vegliare su di lei, cadde in balìa dei quattro bevitori di sangue.

Trassero da quel suo esile corpo minuto tutto quanto il piacere, il suo carattere remissivo e poco reagente fu molto gradito, aveva l'aria di chi si era già rassegnata al proprio fato, ma la verità era che Gigliola era semplicemente troppo affranta per poter lottare.

Aveva perso una metà di sé molto importante, come avrebbe potuto combattere dopo averla persa?

Non provò alcun dolore perché quello peggiore lo aveva già passato, la violenza non le fece nulla, non le procurò nessun effetto.

Quando il tutto cessò, dopo che ognuno di loro si sentì realizzato e sufficientemente appagato, la ragazza tentò la fuga ma venne subito fermata e scaraventata a terra da colui che le aveva condotte in quel campo.

Gigliola lo aveva guardato bene, per tutto il tempo aveva cercato di serbare a mente ogni suo tratto facciale, in tal modo se mai fosse riuscita a fuggire, lo avrebbe riconosciuto.

Gli altri invece si erano preoccupati di coprire il volto, chi con un misero paio di occhiali da sole e chi con dei passamontagna.

«A te l'onore, io vado a fumare» disse porgendo con orgoglio l'arma all'amico vicino, questo prese l'oggetto tra le mani come un flagello passato da padre a figlio e lo resse con sicurezza e onore.

Sembrava quasi un rito di passaggio, il tutto si sarebbe concluso con la morte della giovane.

Gli altri due presenti restarono a vedere, uno di loro dichiarò che avrebbe desiderato avere rapporti con il cadavere della giovane.

«Che schifo» rispose l'amico affianco.

«L'ho visto fare in un film, e poi sarà ancora fresco»

«Zitti» ordinò freddamente il giovane con l'arma in mano.

La teneva puntata dritta verso Gigliola, pronto e sicuro di voler porre fine alla sua vita.

«Vi prego, non voglio morire...» singhiozzò disperata la ragazza, ponendo in avanti le mani affinché potessero vedere che era indifesa e di certo non una minaccia.

«Ti prego...»

A ogni battito di ciglia e cuore, sentiva la propria ora farsi vicina.

Presto avrebbe saputo dove fosse andata Dalia, e anche se bruciava dalla curiosità di saperlo, non era del tutto pronta.

«Voglio vivere, vi prego. Lasciatemi vivere, non dirò niente a nessuno ve lo giuro»

Ma le sue preghiere non raggiunse nessuno dei loro cuori, al contrario, alimentò la loro bramosia.

Gigliola a quel punto si rassegnò, comprese che pregare non l'avrebbe salvata.

Accolse così al petto il proiettile e cadde a terra sotto gli occhi dei tre giovani ragazzi, ognuno di loro fieramente contento.

Per il ragazzo che aveva premuto il grilletto quel solo colpo era sufficiente, l'aveva colpita al petto, nessuno poteva sottrarsi da un colpo così fatale.

Dunque abbassò l'arma, sospirò, e se ne andò. Lasciandosi dietro i corpi di due giovani compagne, Gigliola e Dalia.

𓆩II𓆪

«Giglio? Giglio?»

Chiamò da distante la voce del medico, nei margini della testa del giovane ragazzo.

Giglio si riprese dal ricordo, il campo si dissolse come acrilici in acqua, e tornò a sedere sulla sedia al centro dello studio.

Riconobbe il luogo in cui si trovava, l'odore di disinfettante lo abbracciò e la freschezza del profumo del sapone per pavimenti lo stuzzicò. Il bagliore di luce tentò di accecarlo ma l'occhio del ragazzo se ne abituò subito, l'arietta soffiata dalle eliche del ventilatore lo sfiorò con miseria, ma non aveva caldo.

«Puoi tornare a casa» disse l'uomo appoggiando la penna sulla scrivania, suo altare dove giaceva l'indispensabile.

Il taccuino, il cuscinetto per timbro, le cartelle mediche, il tablet e la cornice del figlio e la moglie.

«Hai fatto progressi, hai reagito bene ai farmaci e abbiamo potuto costatare che sei idoneo per tornare a casa dalla tua famiglia»

Le sue parole sollevarono l'animo turbato del giovane ragazzo, seduto ingobbito e quasi raccolto sulla sedia a ruote dello studio.

Volse lo sguardo verso la finestra aperta e restò ad ascoltare il canto dei passerotti che facevano il bagno nella fontanella, si tergevano i becchi e agitavano le alette emettendo piccoli e lesti fruscii.

«E se dovesse venirmi un altro attacco d'ansia, e-e cosa farò se dovessi vederla o sentirla ancora? Dottore non lo so, io sento ancora la sua voce, sento e vedo ancora quei denti. Cosa farò?» chiese rivolgendosi al dottore, quest'ultimo lo guardò con tenerezza e lo assicurò.

«Non esitare a tornare allora, noi saremo sempre qui disposti ad aiutarti. Inoltre, sappi che in caso di aggressione da parte di non umani, puoi rivolgerti al numero blu»

Il giovane sospirò e cercò di pensare positivo, anche se temeva di vederla aggirarsi nei paraggi dei luoghi che avrebbe frequentato, pensò che la soluzione migliore sarebbe stata quella di ignorarla.

«La ringrazio» fargugliò autostimolandosi, era sua abitudine torcersi un ciuffo di capelli o agitare leggermente le dita dei piedi quando teso, incerto o a disagio.

In quel momento si sentiva molto confuso, aveva fiducia nei farmaci e nel dottore, ma non in sé stesso. E poi, temeva ancora. I vampiri facevano parte della società, questi e umani consistevano. Proprio come animali e insetti, come mare e terra. Potevano trovarsi ovunque, dietro il bancone di un bar, dietro una cattedra, tra i corridoi di un ospedale o alla fermata di un autobus.

Tuttavia, la legge emanata dagli umani, proibiva l'assunzione illegale del sangue, l'umano doveva essere maggiorenne e per di più consenziente. Altrimenti sarebbe stato considerato molestia, portando la violazione della legge alla massima della pena per l'accusato. Purtroppo però, esattamente come gli umani, la legge veniva spesso e volutamente infranta dai vampiri.

Vampiri come quelli che avevano attaccato Giglio e Dalia quella notte.

«Buona fortuna giovanotto, ti auguro ogni bene» disse l'uomo, invitando il ragazzo ad andarsene.

Il giovane si alzò dalla sedia, e camminò verso la porta di uscita, sperando che non sarebbe stata l'ultima volta. Si sentiva a proprio agio tra le pareti di quella struttura, il delicato profumo di igienizzante, cotone e lino, gli regalavano piacevoli sensazioni tra cui pace, tranquillità e un caloroso senso di accoglienza.

Lì si sentiva protetto, al sicuro dalle avversità del mondo. Anzi, i mali di questo sembravano non riuscire a raggiungere i cancelli dell'edificio.

Ma non poteva più restarci secondo il dottore, e gli voleva troppo bene per poter osare di opporsi ai suoi ordini. Ogni suo dire e fare si erano sempre rivelati a favore suo, perciò pensò che fosse realmente il momento di tornare a casa.

Il dottore non si sbagliava mai, era saggio e buono, voleva molto bene ai suoi giovani pazienti, e sapeva sempre cosa fosse meglio per ognuno di loro.

Li coglieva tra le mani come passerotti dall'ala ferita, caduti dal nido dopo un attentato di volo.

Poiché incapaci di volare, egli se ne prendeva cura serbandoli dai pericoli del cielo.

Li accudiva, li ascoltava e donava a loro consigli e speranze.

Giglio ora era come un passerotto la cui ala si era ripresa dalla ferita, non necessitava più di cure e attenzioni, adesso poteva tornare a volare. Ciò tuttavia, non avrebbe fatto sparire i cacciatori, anzi, più uccelli in cielo in volo, maggiori sono le canne di fucile puntati verso di loro.

Entrò in quella che era stata la sua stanza, questa la condivideva con un giovane ragazzo, anch'egli come Giglio un passerotto.

Ma lui a differenza di lui, non era ancora in grado di poter riprendere a volare. La ferita che lui riportava era grave, anzi, a grossomodo si temeva gravemente permanente.

Era un ragazzo dai bordi più fragili di una foglia, timido e dall'anima febbrile, o come diceva scherzosamente il dottore "spumeggiante".

Il compagno di stanza guardò Giglio mentre apriva la valigia sul letto, e mano a mano la riempiva con i propri panni.

«Te ne stai andando?» titibò confuso, raccogliendosi sul suo letto e arraffando agitato le ginocchia.

«I dottori ti aiuteranno» rispose Giglio.

«I...dottori?» replicò con tono tradito, non riusciva a comprendere come mai il suo caro amico di stanza lo stesse lasciando. Erano stati bene insieme, in quell'anno avevano stretto amicizia e sembrava scorrere un buon fiume.

«Posso venire con te?» chiese alzandosi, pronto a seguire l'amico ovunque sarebbe andato.

«Scusa, ma non puoi venire con me» rispose Giglio, la cui valigia ben sistemata era pronta.

Issò il manico e la poggiò a terra, dopodiché prese a trainarla.

«Starai bene, non avere paura» disse dirigendosi verso la porta, ma con sua sorpresa, l'amico lo seguì fuori dalla stanza.

Pensò che l'intenzione sua fosse semplicemente quella di accompagnarlo alla soglia, ma dovette ricredersi quando lo vide seguirlo anche lungo il corridoio, allorché si voltò e gli ordinò di restarsene dov'era.

Il giovane amico continuava a con comprendere, andava fuori dalla sua portata, non riusciva a spiegarselo.

Giglio lo stava lasciando, lo stava abbandonando come tutti avevano sempre fatto.

Incombé su di lui una familiare e orribile sensazione, il suo cuore si appesantì e gli occhi si fecero presto pieni come mari.

«Giglio non mi lasciare, ho bisogno di te qui...»

Quelle parole, con quel tono di voce così terribilmente affranto e chiaramente smosso dalla paura, lo indebolirono moralmente, e considerò davvero l'idea di portarlo con sé. Dopotutto Isaac non era un peso, era un ragazzo bravo, umile e ubbidiente. Causava problemi a se stesso ma non al prossimo, perciò pensò che fosse possibile permettergli di seguirlo.

«E dove ti metterò?» si chiese pianificando un idea nella testa.

Ma poi venne stravolto dal buon senso e realizzò che ciò non poteva accadere, Isaac non poteva venire con lui, il dottore non aveva fatto il suo nome.

«No, non si può fare, non puoi venire con me» disse.

A quella risposta Isaac crollò e si fece disperato.

«Ti prego! Non mi lasciare, non abbandonarmi di nuovo! Avevi promesso! Giglio! Giglio mi uccideranno!»

Giglio gli aveva imposto di restare dov'era, ma Isaac avanzò verso di lui e lo strinse tra le braccia, impedendogli così di poter andare.

Era terrorizzato all'idea di restare da loro, aveva assaggiato il calice dell'abbandono e il rifiuto fin troppe volte e vedere l'ennesima persona cara scomparire dalla sua vita era spaventoso. La fobia di deludere il prossimo e non piacere, di non essere mai abbastanza e quello di trovarsi costantemente solo; lo consumava come non mai dal fulcro del cuore.

«Ho bisogno di te Giglio, ti voglio con me, non lasciarmi per favore! Mi uccideranno! Mi uccideranno, no! No!»

Le infermiere accorsero verso i due ragazzi, attirati dalle grida e il pianto del giovane paziente.

Si posero tra loro e li divisero.

Condussero cautamente ma a maniere ardue Isaac lontano da Giglio, ma dal momento che non cessava di dimenarsi, né dava segni di volersi calmare, dovettero ricorrere alla siringa.

La dose di tranquillante fece subito il suo effetto e il ragazzo presto si appisolò tra le braccia delle infermiere.

«Va tutto bene, non preoccuparti per lui, vai pure» disse la infermiera.

«Ditegli che verrò a fargli visita» disse Giglio.

«Lo faremo, ora vai»

Isaac, seppur stordito dal tranquillante, riuscì leggermente a riprendersi e pronunciare il nome dell'amico momenti prima che questo scomparisse verso la fine del corridoio.

Giglio uscì dalla struttura, e per lui fu come varcare sopra una pagina vuota.

Quello era un nuovo inizio, un nuovo capitolo alla sua storia.

Si promise che avrebbe reso fiero il dottore, anche se la vita non era stata clemente verso di lui, cercò comunque di affrontarla a viso sereno.

Così fece un bel respiro, chiuse gli occhi, e attese.

Poteva sentire il fruscio delle foglie solleticargli le orecchie, gli uccellini cantavano e il gorgoglio della fontanella accompagnava i loro fischiettii.

Nessun ruggito di motore, né vagito di bambino, era una deliziosa quiete come una tazza di tè caldo. Sentiva le api ronzare da un fiore all'altro, e le chiacchiere e risate dei pazienti che passeggiavano per il cortile.

Quando riaprì gli occhi, sospirò, e una lacrima rigò il suo volto e un leggero sorriso gli fiorì in mezzo le guance.

𓆩III𓆪

I suoi capelli piacevano molto a sua madre, quando glieli toccava diceva che assomigliavano ai campi di grano, in cui la notte correva da bambina per catturare le lucciole.

Per questo aveva pianto tanto quando se gli era improvvisamente tagliati, nel bagno, in un episodio di delirio e rabbia.

Tuttavia, lo considerava un prezzo modesto da pagare.

La vita di suo figlio valeva molto più di quei capelli color nocciola, che con il tempo stavano riprendendo a crescere e raggiungere i lobi delle orecchie, assente di orecchini. Anche quelli se li era tolti, non li avrebbe mai più rimessi.

«Che c'è?» chiese il ragazzo dopo un boccone di torta.

Avevano cenato assieme ed erano giunti al dessert, la madre aveva preparato una torta al cioccolato, la preferita del figlio.

L'aveva fatta appositamente per il suo ritorno, nell'impasto oltre agli ingredienti richiesti, c'era anche il suo amore.

«Sono felice di riavere il mio fiorellino a casa, mi sei mancato tanto» disse contenta, sistemandogli un ciuffo di capelli.

Quello ribelle non se lo era tagliato, era riuscito a sfuggire dalla forbice.

Era sempre costretto a soffiarlo o domarlo sotto una forcina o in un piccolo e stretto elastico.

Il padre, vecchio nella morale ma non nell'età, guardò con gran sconforto il ragazzo seduto alla sua tavola e non si preoccupò di trattenere i propri giudizi.

Era un uomo di legge, egli le emanava e rispettava, ma ironia della sorte, non riusciva ad applicare l'amore e l'uguaglianza verso il ragazzo.

«Secondo me doveva restarci ancora» disse.

Il sorriso del ragazzo scomparve assieme l'appetito, improvvisamente la torta aveva perso la sua delizia.

«Roger» riprese la donna, stanca del portamento del marito, il cuo cuore non era ancora riuscito ad accettare la natura del figlio. Piangeva ancora la morte della sua adorata figlia, la voleva indietro, le mancava, e rifiutava di riconoscere Giglio come la sua bambina.

«Perché non cambi anche nazionalità visto che ci sei? Anzi, cambiati cognome, mi risparmieresti la vergogna» disse, insabbiando la gioia con cui il ragazzo si stava godendo il pasto.

«Mi domando perché mai mi detesti così tanto, suppongo che tu serba per me tutto l'odio del mondo, se hai deciso di procurarmi così tante pene e dolore. Ti guardo e non ti conosco, non sei né lo scarto né il riflesso di ciò che resta della mia Gigliola»

Gli si alterò lo stomaco e tutto per lui diventò amaro, si pulì le labbra con il tovagliolo e posò giù la forchetta. Aveva perso il suo appetito.

«È stato tutto buono, grazie e buonanotte» disse alzandosi dalla sedia e abbandonando la sala.

«Ecco, vai via» seguì l'uomo, finendo di gustarsi con piacere la fetta di torta.

La sua consorte lo guardò con dispiacere e domandò spiegazioni.

«Perché fai così? Nostro figlio ha bisogno di noi»

«Tuo figlio ha bisogno di cure mediche, anzi, liberazione» rispose l'uomo, convinto che il tutto fosse solo frutto di un seme nocivo piantato dall'influenza del mondo e tutte le sue malizie immorali.

La donna non sapeva che dire, si alzò dalla tavola e raggiunse il ragazzo al piano di sopra.

Lungo il corridoio poteva sentire il suo pianto, camminando, passava accanto alle memorabili cornici che catturavano momenti di gioia della famiglia.

Tra questi era presente Gigliola, l'amore del padre continuava a vivere con lei dentro l'immagine.

La donna entrò nella stanza del figlio aprendo gentilmente la porta.

«Tesoro, non badare alle parole di tuo padre» disse avvicinandosi ai piedi del letto, il ragazzo sollevò leggermente le ginocchia per concedere maggior spazio alla madre per sedersi.

«Che cosa devo fare per far si che mi ami come amava Gigliola?» singhiozzò esasperato.

«Non è amore se ci si sforza a darlo o riceverlo. Tuo padre è rimasto nel passato, ma il suo amore per te è costante. Era devastato quando sei stato ricoverato, ho visto nei suoi occhi come ha sofferto la tua assenza. Non lo ammetterà perché è un uomo orgoglioso, ma sappi che nel profondo del suo cuore tu sei presente»

Le amabili parole della madre guarirono il ragazzo e lo sollevarono, anche se non pienamente convinto, pensò che in fondo non doveva davvero sforzarsi per ricevere amore dal genitore.

«È stata una lunga giornata per te, ora riposati» disse dandogli un bacio in fronte.

Il ragazzo le sorrise e le augurò un buon e meritato riposo.

«Domani esci un po', sono certa che ti sarà d'aiuto» suggerì la madre, momenti prima di chiudere la porta della stanza, lasciando Giglio con la sola luce della luna.

Restò raggomitolato nel petto a riflettere sul consiglio dei donna. Non era abituato a uscire da solo, ma tra un'incertezza e l'altra, pensò che questo era quello che avrebbe voluto lei.

Sospirò e si volse verso la finestra.

Il viso tondo e chiaro della luna lo trascinò dentro quei secondi di terrore di quella dannata notte di agosto, le dune delle lenzuola, se accarezzate con la superficie del palmo della mano, gli ricordavano il prato del campo abbandonato.

E chiudendo leggermente gli occhi, riuscì a vederla correre ancora.

La voce di Isaac sopraggiunse nel ricordo e alterò la realtà, la paura della solitudine incisa sul suo volto, scosse Giglio, e il rancore lo pervase.

Se non fosse inciampato Dalia non sarebbe stata costretta a tornare indietro per salvarlo, al contrario, poiché più veloce, sarebbe sicuramente riuscita a sopravvivere.

Pensò che se non avesse detto nulla, se fosse rimasto a terra in silenzio, in attesa della sua ora, adesso ella sarebbe viva.

Però aveva fatto il suo nome, l'aveva chiamata e pregato di non lasciarla.

Dalia era tornata indietro per salvarlo nonostante fosse a metri più avanti, non l'avrebbe colpevolizzata se al contrario avesse continuato a correre.

Dopotutto, si trattava solo di una ragazzina.

Reciso dal senso di colpa, Giglio si coricò tra le lacrime e i gemiti. Non era così che immaginava la sua prima notte a casa, ma si rassegnò e non fece nulla per asciugare le lacrime.

Come aveva detto il dottore, bisogna lasciar defluire il dolore, perché se lo si cerca di contrastare si farà sempre più tremendo.

Dunque lasciò che le lacrime gli sfigurassero il viso rendendolo rosso e gonfio, il cuscino le colse tutte e s'inzuppò come una spugna.

Quando finalmente si appisolò profondamente, ecco che la sua mente si liberò da qualsiasi pensiero e ricordo.

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