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StOrge Non Voglio Il Tuo Amore

Capitolo 1. -PHILIA-

^^^LA STORIA CONTIENE:^^^

^^^Scene di sesso esplicito. ^^^

^^^Linguaggio volgare. ^^^

^^^Concetti religiosi e spirituali. ^^^

^^^Comportamenti/atti abusivi e violenti. ^^^

Le setole del pennello restavano appena sospese sulla tela innevata di niente, nuda e scarna, colma di vuoto, immensa di nullità.

La mano dell'uomo fremeva titubante, il cuor suo palpitava pesantemente nel dubbio, e la mente era simile a una pianura annebbiata.

Non c'era niente, nessun elemento, nessun volto e nessun paesaggio da cui prendere ispirazione.

I fari di luce che in quella notte lo accecarono, gli rendevano difficile vedere con chiarezza ciò che gli stava di fronte.

La neve che gli giaceva silente sul viso, il rumore croccante delle suole sull'asfalto, il suono delle acute sirene, lo straziante lamento del figlio e le parole che pendevano confuse e sconnesse dalle labbra dei paramedici.

Era una caramella sul palato che non perdeva gusto, anche se masticata e ingoiata, l'asprezza e l'acidità restavano vivide e pungenti sulla lingua.

Loris guardò con delusione la tela, si reputò incapace.

La sua ispirazione dimorava nel cimitero, la sua fantasia era stata resa cupa, e un grande blocco incombeva su di lui quasi fino a inghiottirlo.

Frustrato dalla sua inabilità di disegnare, lasciò il pennello e sospirò arreso.

La stanza era ricca di silenzio, l'uomo si trovava al centro di un disordine mentale piuttosto che d'arredamento. C'era polvere ovunque, si respirava cera e umidità, acrilico e legna, carta da parati e pagine di vecchio giornale.

Dalla finestra non entrava aria, le tende erano rigide e assenti d'animo, proprio come lui. C'era molta più vita nelle ragnatele presenti negli angoli, i ragni che con il tempo avevano tessuto le loro dimore, rendevano la stanza nettamente viva.

Mentre il pittore solitario meditava sulla propria impotenza contro il blocco, della sua inabilità e del talento smarrito, udì la porta di casa chiudersi.

Il tintinnio di chiavi che interruppe la sua meditazione, venne poi accompagnato da una lunga serie di passi: leggeri per il soggiorno, più pesanti sulle scale, e nuovamente lenti e lievi.

L'uomo uscì dal proprio rifugio, cogliendo il giovane scolaro lungo il corridoio in via verso la camera da letto, dove bramava di recarvisi già tra i banchi della scuola.

Addosso aveva un maglietta chiara con il colletto alto che gli nascondeva l'intero collo, portava dei jeans stretti e scuri con ai piedi le solite scarpe piatte e semi slacciate. Reggeva lo zaino sulla spalla sinistra come l'oggetto più prestigioso del mondo, sebbene carico di materie, strozzava il manico con timore di esserne privato da un momento all'altro.

Pareva un vampiro con la sua pelle lattea ed estranea al sole, i suoi capelli erano un contrasto a questa, poiché tetri come la pece.

Anche il suo occhio era scuro, non sfuggì di certo a quello del padre, che preoccupato chiese subito cosa gli fosse successo.

Il ragazzo rispose senza alcuna esitazione, confessò al padre la ragione per cui avesse l'occhio scuro.

«Mi è arrivata una palla in faccia durante educazione fisica»

«Strano, educazione fisica ce l'hai il giovedì e il venerdì» rispose l'uomo, al corrente di tutti gli orari scolastici del figlio. Issò un sopracciglio e attese una risposta del ragazzo, la quale non tardò ad arrivare.

«Il professore era assente, così ci hanno diviso in diverse classi, io sono finito nella quarta, che a quell'ora stava svolgendo educazione fisica» il figlio pregava in cuor suo che il padre avrebbe creduto alla menzogna edificata con accuratezza lungo il marciapiede. Ci aveva impiegato tempo per poterla pianificare, riconosceva il fiuto attento del genitore e la sua abilità nello scrutare anche la più piccola beffa.

Non doveva mostrare segni di debolezza, come fuggire con lo sguardo, grattarsi smaniosamente la pelle attorno alle unghie o mordersi il labbro. Ciò avrebbe reso chiara la recita, tale atteggiamento lo avrebbe di certo esposto e le conseguenze sarebbero state più che amare.

Loris Anderson era un uomo retto e severo, detestava il bugiardo e considerava un criminale chiunque trovava facile proferire falsità come bere acqua.

Ma la buona sorte benedì il caro William, suo padre credette alla bugia e non sollevò maggiormente il tappeto. Inoltre, non voleva dubitare del proprio figlio, era vergognoso anche solo pensare di aver cresciuto un bugiardo.

«Va tutto bene?» gli chiese cambiando completamente discorso, sollevando l'animo del ragazzo, che annuì senza aggiungere altro e si apprestò a ritirarsi nella sua stanza per alleggerirsi da quella nuvola di pressione.

«Presto ti chiamerò per mangiare» disse l'uomo avviandosi verso le scale che lo avrebbero condotto al piano di sotto, dove stava la cucina. Ma prima di farlo, si accertò di chiudere a chiave la porta del suo studio.

Era un tempio sacro, un luogo di culto e meditazione, non voleva che suo figlio ci mettesse piede, là dentro erano presenti oggetti fragili persino al sol contatto degli occhi. Inoltre egli dipingeva per un soggetto le cui fantasie lasciavano desiderare, un uomo che conduceva una vita lussuosa presso un'amabile villetta fuori dal centro della città.

Il suo nome era Gavriel Heinrich, un uomo che si era follemente innamorato dell'arte di Loris, la considerava unica ed espressiva, astratta ma realistica.

«Tu riesci ad alterare la realtà, facendola però rimanere normale»

Gli diceva.

Per questo lo aveva assunto come suo pittore personale, egli lo riceveva ogni giorno per farsi ritrarre.

Era un lavoro modesto dacché a fine di ogni servizio tornava a casa con l'oro in bocca, ma in realtà lo detestava.

Il figlio rispose a stento entrando nella camera, non aveva riguardo per quella stanza segreta a cui suo padre teneva molto, chiuse dietro di sé la porta e si levò di dosso il peso dallo zaino dalla spalla.

Quando si gettò sul letto, sospirò esausto, sfogando in un lungo e largo sbadiglio tutta la stanchezza e la fatica accumulata in giornata.

Nel mentre il padre stava già aprendo il pacco di pasta da preparare, sapeva che non avrebbe mangiato, pensava di coricarsi a stomaco vuoto come al solito, non gli piaceva andare a letto con lo stomaco pesante.

Avrebbe mangiato solamente il figlio, perciò misurò poca pasta, poiché quest'ultimo non era abituato a cibarsi tanto.

Non era amante del cibo, a essere sinceri, non era molto amante di niente. Era un ragazzo che viveva la vita a giornata, come una foglia al vento, sbatacchiata qua e là senza sentiero e rotta. Dedicava il proprio interesse solo verso le piccole cose che gli piacevano.

Il padre al contrario, era un uomo in un quadro astratto, un contrasto di vie e colori. Diretto ma spesso indeciso, integro ma fragile, sensibile eppure capace di essere freddo, preciso ma qualche volta svogliato, intelligente eppure ancora conforme agli statuti tramandati dal suo vecchio padre.

Si fecero le venti quando la pasta finì nel piatto, calda e fumante, si trovava pronta a tavola per essere consumata.

L'uomo chiamò il figlio per invitarlo a scendere e accomodarsi, quest'ultimo uscì dalla propria stanza e si presentò in cucina in pigiama e con un asciugamano attorno al collo per cogliere le gocce d'acqua che stillavano dai capelli bagnati.

Dopo un breve sonnellino, si era messo con la testa sotto la cabina della doccia. Era troppo stanco per farsi un bagno completo, si sarebbe appisolato sotto l'acqua come lo scorso martedì.

«Pasta? Ancora?» si lamentò sedendosi di fronte al piatto poco invitante ma ben presentato.

«Quando è stata l'ultima volta che l'hai mangiata?» ribatté il padre alquanto offeso.

«L'altro ieri a cana e l'altro ieri ancora per pranzo» rispose il ragazzo.

Dunque il padre issò gli occhi e accolse la lamentela del figlio, gli promise che lo avrebbe presto portato a mangiare presso un ristorante.

Ciò fece sorridere il giovanotto, che da tempo non metteva piede in un luogo così raffinato assieme al genitore.

"finalmente" pensava.

Fece il primo boccone di pasta senza alcuna smorfia in volto, nella sua testa c'era solo quel brillante edificio che sorgeva sul ciglio della strada, le cui porte, una volta aperte, sprigionavano un succulente profumo di fritto e saltato. Era un ristorante di un invidiabile qualità, in molti provavano a replicarlo ma nessuno poteva sedersi allo stesso livello del "Mezzanotte".

Ma la breve allegria fu improvvisamente portata via dal suono del campanello, il ragazzo s'incupì, perché sapeva perfettamente chi fosse. Tuttavia ci sperò e pregò si trattasse solo della solita vicina noiosa, la signora Redshank, ma a giudicare dalla furia e l'insistenza con cui venivano molestati la porta e il campanello, dubitò che si trattasse di lei.

La pasta si fece leggermente amara nella bocca, calò gli occhi all'olio di oliva che stillava dalle rigature delle penne, e attese con ansia la tempesta pronta a irrompere in casa sua.

Il padre si avvicinò alla porta, ignaro di quel che tormentava suo figlio, e si trovò dinanzi una donna irrequieta in compagnia di un giovane ragazzo, entrambi emanavano aria di minaccia e guerra.

«Sì, lui è suo padre» pronunciò il giovane, la donna erse gli occhi verso Loris e cominciò a sbraitargli addosso con tono arcigno e violento.

«Lei si deve vergognare! Lei e soprattutto quel maleducato di suo figlio! Guardi come ha ridotto il mio Michael, sembra stato pestato da una gang di teppisti!»

Loris guardò il volto del giovane, gonfio come chi lapidato alle porte della città per aver commesso un reato, chiunque lo avesse conciato in quella tremenda maniera, era di certo all'acme della furia.

Pugni e graffi, neppure le braccia erano state risparmiate, esse erano coperte di lividure e morsi.

«William non ne sarebbe capace, magari suo figlio si è confuso con un altro ragazzo» rispose Loris, facendo notare le differenze corporee di entrambi i giovani ragazzi.

William era magro e non molto alto, Micheal invece godeva di due gambe robuste e di una corporatura media. Era folle credere che William fosse riuscito a prendere a sberle un ragazzo due volte più grosso di lui.

Ma la donna, anche davanti a questa osservazione, gonfiò il petto e sollevò il dito.

«Certo, ovviamente, prenda pure le sue difese. Ma sappi che la prossima volta vi trascinerò in tribunale! Mio marito è un avvocato e mio fratello lavora nelle forze dell'ordine, ciò che suo figlio ha commesso è un reato! Potrei farlo arrestare per aggressione!»

L'uomo titubò, non sapeva come replicare, non poteva giustificare l'azione di suo figlio davanti al viso percosso del povero giovane. Tutto ciò che gli restava da fare era scusarsi umilmente e chiudere la porta in faccia ai due.

«Le chiedo scusa, non si ripeterà mai più, glielo assicuro» disse, ma ciò lasciò la donna poco convinta, ferita nell'orgoglio e oltraggiata, arricciò il naso e assieme al figlio tornò nella propria auto.

L'uomo chiuse la porta e guardò attraverso lo spioncino le due serpi allontanarsi, quando scomparvero dalla sua veduta, si voltò e tornò in cucina.

Il figlio era al corrente di tutto, aveva visto e udito, ma non si atteggiò come chi stava per essere interrogato.

L'uomo evocò il nome del ragazzo, il suo tono lo fece fremere di tensione, pensava se doverlo affrontare o fuggire.

Ora era chiaro di come si era procurato quell'occhio, Loris si adirò molto, suo figlio gli aveva spudoratamente mentito in faccia.

«Tu credi che io sia stupido?»

Domandò l'uomo camminando verso la cucina, il figlio deglutì il duro boccone di pasta e scosse il capo.

«Come ti sei procurato quell'occhio nero?» chiese, questa volta il figlio dovette confessare.

«È stato Micheal»

«Perché?» domandò Loris.

«Perché mi ha provocato, ecco» disse posando giù la posata.

Il padre gli afferrò il polso e gli agitò bruscamente la mano.

«Quante volte ti devo dire di non alzare mai queste mani? Quante?» ringhiò furioso.

Il ragazzo condusse distante il proprio sguardo colpevole e si scolpò con le più mediocri scuse che conosceva.

«Tu non sai le parole che quello mi rivolge, per questo parli così» ribatté sfilando il polso dalla presa del padre.

«William così rischi di essere sospeso o addirittura espulso!»

"La sua giovane età e la sua immaturità gl'impediscono di parlare e agire come un adulto, non è di certo colpa sua se è dotato di poca pazienza, ma ciò non lo rende innocente"

«Lo so, lo so!» ribatté il giovane.

«Allora perché continui ad atteggiarti come un bullo? Perché ogni volta che mi prometti che non si ripeterà più, alla fine si ripete?»

chiese, quell'accusa fece ribollire il ragazzo, la cui pelle, pallida com'era, fiorì in un rosso acceso. Sapeva di non essere lui il bullo, anzi, egli era la vittima. Per anni era stato bersaglio di oltraggi e percosse, sempre nel mirino di Micheal, ragazzo prepotente e viziato, dalle maniere ardue e il carattere superbo.

Si erse dalla sedia, respinse la mano del padre e colto dalla frustrazione scalciò la sedia.

«Non sono io il bullo! Micheal lo è, si è sempre fatto beffe di me fin dalla prima! Io non ce la facevo più a sopportarlo, a reggere tutto! Meritava un po' di botte, non è altro che un maledetto omofobo del cazzo!»

Ma ahimè, poiché preda della furia, non badò alle proprie parole e realizzò quanto compiuto solo finita la frase.

L'uomo sussultò sconvolto per il linguaggio volgare del figlio, quest'ultimo annegò in una vasca di vergogna, la lingua finì sotto i denti e gli occhi calarono pesantemente al pavimento. Il cuore fece un salto fuori dal petto e si celò, l'anima abbandonò il suo corpo e la sua ombra si ritirò sotto un sasso.

Il padre si alzò dalla sedia, era confuso da quella parola e sperava di aver udito male.

La riciclava nella mente, la interpretava e la ripassava come se ne avesse le lettere davanti.

«Omofobo?» pronunciò con enorme ribrezzo.

«Sì, cioè no, intendo razzista...è un razzista lui, mi sono confuso» balbettò il ragazzo, torcendosi l'asciugamano al collo e indietreggiando.

«William, sei gay?» chiese Loris, disgustato anche dalla sola parola, difatti gli pesava sul palato, gli causava un bruciore simile all'acido.

Il giovane non sapeva come giustificarsi, non vi era bugie che poteva dire, suo padre fiutava qualsiasi menzogna e non avrebbe tollerato un'altra bugia.

«No, assolutamente, no io non lo sono...però, che cosa ci sarebbe di sbagliato?» chiese chinando il capo, non aveva il coraggio di vedere l'espressione sul volto di suo padre e sarebbe morto pietrificato se lo avesse fatto.

Persino la pasta si raggelò, il pavimento invece si fece bollente e gli arti del giovane vacillavano come carta.

L'uomo delirò, gli mancò il fiato e cominciò a viaggiare con la mente.

Temeva che il figlio fosse stato corrotto dal diavolo, che quest'ultimo fosse riuscito in qualche modo a iniettargli nel cuore desideri perversi e immorali.

«Parlerò con il pastore» concluse, dopodiché si avvicinò al ragazzo e lo abbracciò.

«Chi ti ha messo questa idea in testa? Eh?» domandò portando le mani alle gote del ragazzo, confuso dall'atteggiamento del padre, ma non aveva coraggio di opporsi o difendere la propria identità.

Amava i maschi, li trovava interessanti, gli facevano venire le farfalle allo stomaco, il viso di un bel giovanotto lo rendeva incapace di parlare e persino di camminare.

Nessuno gli aveva messo quelle idee in testa, nessuno gli aveva dato scelta.

Era parte della sua indole più pura, nata dal cuore dalla nascita, ma riconosciuta e resa chiara solo una volta incontrato il Romeo della sua Giulietta.

L'Adamo alla sua Eva, l'Eros della sua Psiche.

Ma il suo nome non era di un personaggio di un racconto, il suo vero nome era Adric O'moore.

«Nessuno»

Rispose.

«Stai tranquillo, cercheremo una soluzione, okay? Tuo padre è qui, non temere»

Baciò il figlio sulla fronte e lo strinse tra le sue braccia, timoroso che se non avesse agito come buon padre, il diavolo glielo avrebbe presto portato lontano.

«Il pastore saprà cosa fare, prevenire è meglio che curare» disse.

Era molto fiero di essere seguace del signor David, Loris lo considerava un vero uomo di Dio, abile e devoto nel mestiere.

William arricciò leggermente il naso e serrò i denti, non aveva potere su suo padre e non gli era concesso esprimersi come desiderava. Quell'abbraccio era una gabbia da cui non poteva uscire, Loris lo nutriva di un amore nocivo che non faceva altro che crescere nel tempo.

"Perché ho parlato?" pensava.

Ricambiò l'abbraccio e si scusò con l'uomo per quanto accaduto a scuola.

Ma il padre non covava più alcun rancore per quello, c'era ben altro nella sua testa, la paura di perderlo e vederlo finire come la madre lo preoccupava assai di più di una espulsione.

Quando il sole calò e il cielo si fece nero, le lampade a casa Anderson si spensero lasciando stanze e corridoi bui.

Loris gettò dell'acqua sul fuoco del camino, si accertò poi che ogni porta fosse appropriatamente chiusa e prima di concedersi riposo, entrò nella stanza del figlio.

Era sua abitudine ormai, accertarsi ch'egli respirasse prima di andare a coricarsi.

Si avvicinava cautamente al letto del giovane, portava un dito sotto le sue narici o controllava che il petto s'innalzasse e calasse regolarmente.

Quando era certo che respirava, il cuor suo trovava pace e poteva andare a dormire.

Si recò nella sua gelida stanza, non dovette cambiarsi dal momento che indossava già indumenti comodi.

Si ritirò tra le coperte, lesse qualche salmo, e infine posò la testa sul morbido cuscino.

Il petto calò e un soffio di stanchezza fumò dalle sue narici, era stanco e bramava di passare una notte serena.

Ma ben presto avrebbe dovuto fare i conti con i soliti incubi, le ombre e le voci del passato. Essi non erano pietosi e non gli avrebbero concesso un buon riposo fino al sorgere del sole.

2.

Sotto i rintocchi irrompenti delle campane, seguivano gli scalpiti delle suole di coloro che scendevano giù per la scalinata, diretti verso le proprie auto con gli animi sazi di sermoni e parabole.

Sognavano di pranzare assieme ai familiari, di trascorrere un sereno pomeriggio in compagnia dei cari e degli amici, a ponderare sulle sedie o a leggere un buon libro.

Loris d'altro canto si trattenne nella sala, in attesa che tutti i fedeli abbandonassero il luogo, per poter avvicinarsi al pastore.

Quando Daniel, il pastore, si trovò finalmente in compagnia di sé stesso, Loris intimò il figlio di attenderlo in auto.

«Posso andare direttamente a casa a piedi?» domandò titubante, sapeva l'esito che avrebbe ricevuto dal padre, difatti l'uomo si rifiutò e porgendogli le chiavi gli ordinò di chiudersi in auto.

Infine, si avvicinò al pastore e chiamò la sua attenzione su di sé.

«Come al solito il servizio è stato meraviglioso, le tue parole, pastore, mi entrano dritte al cuore e mi nutrono l'anima» disse l'uomo ammirando con fascino il pastore, lusingato di sentirsi dire tutto ciò.

«Comunque, se per te non è un problema, avrei il bisogno di parlarti un momento in stanza, se è possibile»

Dal sottile tono contenuto che Loris usava, l'uomo di Dio comprese che ciò che gli voleva dire era importante e deciso a serbarlo in segreto, così condusse Loris nel proprio studio dove avrebbero potuto discutere senza terzi.

Lo studio del pastore era una piccola stanzetta rinfrescata da un piccolo ventilatore attaccato a una vecchia presa elettrica, le eliche sul lampadario erano rotte e la finestra se aperta in malomodo si sarebbe potuta guastare.

Era carina ma necessitava di una ristrutturazione, le crepe erano miserabilmente nascoste dietro a mobili e quadri, gli angoli sebbene spolverati profumavano di vecchie pagine.

Il pavimento era umido lungo i margini, e anche se lucidandolo ogni mattina, restava comunque una leggera brina di polvere.

«Allora, di che si tratta? Hai bisogno di favori? Preghiera? Consigli? Parlami figlio mio» chiese Daniel posandosi al margine della scrivania, unico mobile nuovo e robusto presente nella stanza. Su di essa c'erano posati dei fogli delle varie attività che si svolgevano nella struttura, pennarelli aperti, segnalibri e graffette.

Loris si lasciò leggermente distrarre dai numerosi elementi presenti su quel mobile e dai rumorosi fedeli lasciare la chiesa, credendo che a momenti avrebbe colto anche suo figlio in mezzo a loro. Infatti, era di lui che voleva parlare al pastore.

«Si tratta di mio figlio, lui sostiene di essere omosessuale, o almeno, temo abbia una crisi d'identità. Inoltre ha nuovamente pronunciato imprecazioni, egli non è solito a farlo, pastore» dichiarò.

«Sono sicuro che si tratti solo di una fase, i giovani d'oggi giorno vogliono fare sempre parte di un gregge pur di non trovarsi soli. Vogliono sentirsi accettati, non ti preoccupare, Loris» disse il pastore, che conosceva molto bene William e lo considerava un figlio modello, timido e molto riservato. Estraneo alle cose del mondo e devoto negli affari del Signore.

«Certo» sospirò Loris poco convinto.

«Continua a pregare per lui, veglialo e cerca di tenerlo lontano da qualsiasi influenza. Il diavolo non opera mai in prima persona, sii prudente con chi si aggira, anche se a scuola non puoi controllarlo, accertati che le persone di cui si circonda non siano testimoni del diavolo»

Continuò il pastore.

«William non ha amici, conosce solo Adric, e lui lo conosco è un ragazzo per bene» rispose il padre con tono quasi fiero.

Suo figlio non aveva una larga vasta di conoscenze, in pochi a scuola erano al corrente della sua esistenza, poiché sempre silente e solo, veniva notato solo quando chiamato durante l'appello.

Adric invece, era stato capace di notarlo quando nessuno lo aveva fatto.

Veniva da una famiglia benestante, un architetto e una casalinga, Loris li conosceva entrambi e aveva stretto una particolare amicizia con la madre di questo poiché entrambi uniti dalla passione per l'arte.

«Portalo qui, fallo partecipare al gruppo giovani, loro sapranno come aiutarlo. Oppure puoi farlo venire qui da me, potremmo parlare insieme qualche volta» suggerì l'uomo di fede.

Loris la trovò un'ottima idea, si chiese come mai non gli fosse venuto in mente prima.

«Certo, potrebbe funzionare»

«Nel frattempo tu continua a pregare per lui. Noi ci dimentichiamo che al mondo non mettiamo copie di noi stessi, ma soggetti con propri pensieri e idee. I fanciulli dell'età di William sono molto fragili e basta poco per corromperli, sii prudente Loris, guidalo per la retta via»

«Certamente, questo io l'ho sempre fatto» rispose il genitore, la corona che portava sul capo era pesante, doveva metterci impegno e sudore se non voleva fallire come figura paterna.

«Non ne dubito, sei davvero un buon padre e si vede»

Detto ciò il pastore invitò il seguace di lasciare lo studio, quest'ultimo uscì con animo sollevato e raggiunse il figlio seduto in auto come ordinato.

«Andiamo a mangiare adesso?» chiese, lo stomaco suo non aveva cessato di brontolare dall'inizio del servizio, sognava di sedersi a tavola del "Mezzanotte" e gustarsi un piatto abbondante del suo pasto preferito.

Sua madre era di origini italiane, ella era cresciuta tra le padelle e i fornelli, suo padre le aveva tramandato il proprio sapere anche una volta emigrati a Toronto.

Quella donna possedeva la cucina, preparava piatti prelibati che facevano leccare i baffi a chiunque.

La sua specialità erano le lasagne, William le adorava, non si stancava mai di mangiarle.

Il ristorante a cui erano ora diretti non le cucinava come la madre, ma si avvicinavano, e il loro sapore sul palato del ragazzo lo trascinava a quei pomeriggi in terrazza.

«Hai intenzione di ordinare lasagne? Non vorresti provare qualcosa di diverso dal solito?» chiese Loris.

Il figlio scosse il capo e dichiarò di voler ordinare lo stesso piatto.

«Va bene. Comunque, dalla domenica prossima inizierai a prendere parte al gruppo giovani, ho già parlato con Daniel» disse l'uomo.

«Ma io non voglio...» balbettò il figlio, già al corrente del fatto che la sua opposizione non sarebbe contata niente.

«Non è questione di volere o meno, è una cosa che devi fare e basta. Il tuo linguaggio di ieri mi ha turbato molto, lo sai che è abominevole pronunciare certe parole con la stessa bocca con cui si loda il Signore. Inoltre questa storia di essere gay o no non mi piace, mio figlio non è un depravato»

«Papà, quello è un oltraggio» ribatté offeso il ragazzo, ma ciò suscitò sospetti nel padre.

«Perché prendi le difese di questa comunità di efferati?» chiese, ma il giovane non sapeva come rispondere. Erano suoi fratelli e sorelle, egli ne faceva parte, qualsiasi oltraggio contro loro colpiva anche lui.

«William la mia pazienza è corta, non tenderla troppo» disse il padre, e dacché già irrequieto, decise di privare il figlio di quella piccola gioia.

Non si sarebbero più recati al ristorante, bensì a casa.

La brusca inversione lo fece intendere per chiaro al ragazzo, che con gran delusione soffiò e appoggiò la testa sul finestrino.

«Domani hai la verifica di storia, sei pronto?» chiese l'uomo.

«Sì» borbottò il figlio.

«Sì, quanto? Tanto o abbastanza?» replicò, ma il ragazzo non rispose, o meglio, trattenne la risposta tra i denti.

Dunque il padre tese il braccio verso di lui e lo solleticò sotto il mento.

«Sorridimi» disse scherzosamente, ma William non aveva ragioni per cui sorridere.

Era stato offeso e privato di una gioia, inoltre dalla Domenica prossima gli aspettava l'incontro con i giovani membri della chiesa.

«Li ho avuti anch'io quindici anni, so che non è facile» disse Loris, erano quasi giunti a casa, ma rallentò affinché potesse guadagnare abbastanza tempo e parlare al figlio.

«Ma vedi William, spesso non è facile perché siamo noi stessi a renderci la vita complicata. Non permettiamo ai più grandi di aiutarci, sei in una fase dove credi di sapere più degli altri, una fase dove senti di essere un dio. Solo una volta preso il posto dei tuoi genitori o dei tuoi insegnanti capirai, ma ora sei troppo piccolo»

Nella mente sua intanto, scorrevano gli episodi di percosse e rimproveri. Lo schiocco della cinghia che percuoteva le braghe sotto le preghiere della madre, erano sere difficili da scordare, ma erano ciò che lo avevano reso responsabile e maturo.

Ringraziava suo padre per averlo istruito in quella maniera e disprezzava sia la madre che il fratello per aver avuto idee e pensieri diversi, li considerava pigri, degli sfaticati senza propositivo nella vita.

Una volta giunti a casa, il ragazzo prese subito posto a tavola.

Era molto affamato e desiderava mangiare il più presto possibile, l'uomo vedendolo in quello stato, si apprestò a mettersi ai fornelli per preparare qualcosa di lesto e buono.

Gli servì un piatto di patate lesse e pollo, non ciò che il ragazzo desiderava, ma si accontentò lo stesso.

«La tua insegnante ha inserito i voti della verifica di geografia della scorsa settimana» disse l'uomo guardando la schermata del proprio telefono, aveva il registro elettronico del figlio sempre a portata di mano e non gli sfuggiva mai niente.

«Quanto ho preso?» domandò il ragazzo, sicuro di aver preso un buon voto.

E difatti, se non per una piccola svista, lo scolaro si era meritato una "B" piena, che purtroppo non soddisfò affatto le aspettative del padre.

«Potevi fare di meglio» brontolò.

Egli aveva imposto al figlio l'obbiettivo di ottenere sempre il massimo dei voti, non tanto per vanto o per ipocrisia, ma allo scopo d'impressionare il prossimo.

Loris amava suo figlio, e voleva sempre sentirsi orgoglioso di lui.

«Dopo pranzo ripassa tutto, io devo andare dal signor Heinrich»

«Non mangi?»

Chiese vedendo l'uomo affreatto ad andarsene.

«Al ritorno, credevo che l'appuntamento si sarebbe tenuto nel tardo pomeriggio, ma riguardando il telefono mi sono ricordato che in realtà era dieci minuti fa. Sarò di ritorno tra qualche ora, non entrare nel mio studio»

Disse avviandosi verso la porta di casa. Con sé aveva i propri utensili e gli oggetti personali.

«Se dovesse arrivare qualche lettera da firmare, non aprire. Se bussa la vicina, ignorala, e se bussa il corriere gli dici di lasciare il pacco fuori. Non mettere piede fuori casa e se squilla il telefono non rispondere, al mio ritorno mi dirai chi ha chiamato»

«Lo so papà, me lo dici sempre» soffiò il ragazzo.

«So che lo sai, ma te lo ripeto» rispose il padre, dopodiché si avvicinò al proprio figlio e lo baciò.

«Ciao, tesoro»

Disse.

«Ciao papà, salutami Gavriel»

Loris lasciò la casa, e mentre camminava lesto verso l'auto, pregò per la protezione del figlio.

Masticò tra le labbra il salmo centoventuno, entrò in auto e sistemò la valigetta sul sedile del passeggero.

Ma tra una parola santa e l'altra, gli sfuggì un ringhio di frustrazione.

Mise in moto e bruscamente uscì dal proprio quartiere.

La vicina, sentendo la violenta sferzata della ruota, spostò la tenda di casa e fissò curiosa l'abitazione del signor Anderson.

Tribolava per quel vedovo solitario, sempre per i fatti suoi e poco interagente con il mondo esterno. Uomini di mistero l'affascinavano, la rendevano debole.

Credeva che l'unica maniera di giungere all'uomo era mediante il figlio, una volta conquistata la fiducia di quest'ultimo, avrebbe ottenuto anche il padre.

"Colmerò il vuoto nel suo cuore, prenderò il posto di Clara. Dimostrerò di essere una madre perfetta"

Pensava.

Ella era ancora sposata, ma suo marito e lei stavano già svolgendo le pratiche del divorzio. Gli aveva confessato di essersi innamorata di un altro uomo, non aveva rivelato chi, ma entrambi erano rimasti d'accordo sul separarsi.

Loris nel mentre era ignaro delle attenzioni che riceveva dalla vicina, anzi, lui la odiava per le sue maniere evasive e per la sua voce acuta.

Inoltre non aveva tempo per le donne, credeva che non poteva amare due persone contemporaneamente. Suo figlio era al centro del suo universo, il suo tutto e per sempre. Nessuna donna avrebbe potuto mettersi in mezzo a loro, nessuna ne sarebbe mai stata degna.

L'uomo giunse al cancello dell'umile dimora del signor Heinrich con venti minuti di ritardo, si sorprese quando però gli venne concesso di entrare.

Credeva che sarebbe stato respinto o addirittura licenziato seduta stante con una chiamata.

Alla porta c'era la cameriera ad attenderlo, ella lo accompagnò lungo l'ingresso fino al salone.

Il signor Gavriel si fece trovare nella stessa blusa da notte color maggese, sotto di questa non aveva nulla.

Aveva il palmo lungo lo scorrimano e gli occhi rivolti verso Loris.

«Mi scusi per il ritardo signor Heinrich, mi ero dimenticato l'ora dell'appuntamento, credevo che...» ma il pittore venne interrotto dalla tenue voce elegante dell'uomo, profonda e limpida come l'acqua.

Si fermò lungo le scale presso il volto di un raggio di sole, il suo fascino spiccava divinamente sotto tutto quel brio e la cameriera ne fu accecata.

«Figurati, tanto prima o poi sapevo che saresti arrivato» disse, e proseguì per il piano di sopra.

«Continuiamo da dove abbiamo interrotto»

Il pittore e la sua opera, salirono nella stanza di sopra.

"Eden" lo chiamava Gavriel.

Era una sala spaziosa e fresca, il soffitto era una lucente vetrata che permetteva la completa veduta del cielo. Era un panorama che solo un uomo come Gavriel poteva permettersi, ma poiché abituato a tutto quel lusso, nulla lo impressionava più.

Era nato e cresciuto in un palazzo, nei suoi anni di fanciullezza aveva visto, vissuto e assaggiato. Ma ora, nei suoi quarant'anni ben portati, egli era affamato di novità, bramava di essere sorpreso, la pelle sua desiderava qualcosa d'intoccabile e nuovo.

Per un uomo con il conto sempre pieno, era facile poter ottenere tutto e alla svelta.

Ma c'era solo una cosa che ancora non era riuscito ad avere, ad assaggiare e provare.

Era una cosa a lui impossibile da comprendere, da studiare e toccare.

Non poteva comprare l'oro con l'oro, e Loris Anderson era la pepita che non era mai riuscito ad ottenere.

Gavriel ne era follemente innamorato.

Quando posava per lui si sentiva benedetto, invidiava con astio quei suoi attrezzi che teneva con cura e prestazione tra le dita.

Aveva provato a sedurlo con il proprio corpo da doriforo di Policleto, candendo la lingua di miele o invitandolo alla propria tavola.

Ma Loris era estraneo a quelle maniere, era sordo a quelle lusinghe e cieco a quei richiami.

Ma questo non faceva che far innamorare ancora di più Gavriel.

Non voleva ottenere il suo amore con la prepotenza, o facendo appello al proprio titolo. Voleva l'amore di Loris come un comune mortale, e non come il dio Zeus.

Poteva minacciarlo, rovinargli la carriera, farlo uccidere dai suoi uomini e vendere i suoi organi al mercato nero. Avrebbe corrotto poi le forze dell'ordine, il cadavere sarebbe stato cremato e il figlio sarebbe diventato orfano e testimone di due orribili eventi.

Aveva questo potere nello schiocco delle sue dita, ma si rifiutava di usarlo.

"Prima o poi, egli mi amerà" pensava convinto e fiero di sé, anche se ci sarebbero voluti anni, avrebbe pazientemente atteso.

«Ho finito»

Annunciò Loris.

Gavriel si coprì e si alzò dal divano, raggiunse il pittore e guardò l'opera terminata.

Era un vero incanto, una goduria per gli occhi.

«Accidenti, sono davvero impressionato. C'è un motivo se ho scelto te, Loris» disse l'uomo stringendo la spalla del pittore, quest'ultimo l'addocchiò con ribrezzo e fu tentato di respingerla.

«Tu hai un occhio particolare e una mano molto abile, riesci a farmi sentire un dio nei tuoi dipinti» disse guardando l'amato dritto negli occhi.

"Che occhi meravigliosi" pensava.

Loris aveva il cielo racchiuso nelle iridi, quello era il panorama che non smetteva mai d'impressionarlo.

Loris era disgustato dalla maniera in cui l'uomo lo fissava, si sentiva pesantemente premuto da quei occhi verde turchese.

"Perché mi sta così vicino?" si chiedeva.

Gavriel tirò fuori dalla tasca della blusa un pacchetto di sigarette, ne accese una e la porse a Loris.

«Sigaretta?»

Ma il pittore scosse il capo e gli rammentò di non essere un fumatore, Gavriel se lo dimenticava sempre.

«Il giorno del mio compleanno si avvicina, ci sarà molta gente alla mostra, non mi deludere» disse compiendo a seguito di alcuni tiri.

«Certo che no, l'ho mai delusa?» rispose Loris.

«Ti sto solo avvertendo, ci tengo molto a te, non voglio trovarmi costretto a rimpiazzarti, sarà come cercare una perla. Uomini come te io non ne conosco»

Loris percepì qualcosa di iniquo in quelle parole mielate, ma non disse nulla e fece finta di non covar niente.

«Questi sono davvero dei bei complimenti, signor Heinrich, ma non credo di essere poi così speciale. Sono solo un pittore»

«Sei il mio pittore» sottolineò soffiando poi il fumo, dopodiché gli fece notare i precedenti dipinti realizzati presenti sulle pareti della sala.

«Guarda che meraviglia»

«Sono solo acrilici usati con buona tecnica» rispose Loris, guardava le proprie opere con poca meraviglia, considerava quel che faceva come qualcosa di banale, bello solo all'occhio altrui o di chi incapace di prendere una matita in mano.

L'uomo sogghignò, gli si avvicinò e gli porse una busta contenente una gran moltitudine di banconote.

«Tieni» disse.

«Ma mi ha già pagato la scorsa volta, signore. Questo che cos'è?» domandò confuso guardando la grande somma di denaro.

«Un regalo» rispose Gavriel.

«Usali, facci quello che vuoi, danne anche un po' anche a tuo figlio»

Loris titubò, non soffriva di fame e non nutriva il timore di non arrivare a fine mese. Gavriel lo aveva viziato di così tanto denaro, che non sapeva più che farsene.

«Io non li posso accettare, sono troppi. Per dei semplici disegni?» ribatté porgendo indietro il pezzo di carta, ma l'uomo dagli occhi verdi, soffiò e trattené le mani riservate.

«Prendili» ordinò.

Voleva che Loris se li potesse godere, desiderava vederlo oziare sotto il sole.

Riteneva che avesse bisogno di una vacanza, quelle occhiaie scure immaginava essere risultato di una vita stressante.

Loris però non credeva di meritarseli, erano troppi per solo lui e suo figlio, sapeva che c'erano altre persone là fuori che ne avevano più bisogno.

"Li donerò" pensò, e infilò la busta nella tasca della camicia.

«La ringrazio» disse.

Graviel sorrise e si rallegrò nel vedere l'amato suo accettare il dono.

«Che cosa farai nei prossimi giorni?» chiese.

«Nulla di particolare, seguo mio figlio con la scuola, presto inizieranno le vacanze estive perciò ha bisogno d'impegnarsi»

«Avresti tempo per andare a prendere un caffè insieme? Oppure se vuoi potremmo andare a visitare la galleria d'arte a Ontario, può venire anche William se vuole» Gavriel tentò in tutti i modi per convincere Loris, ma come al solito quest'ultimo trovava una scusa per rifiutare.

«Il mio medico mi ha sconsigliato di bere caffè e i posti affollati non fanno molto per noi, grazie per il pensiero, ma purtroppo sono costretto a rifiutare»

Ciò fece torcere lo stomaco a Gavriel, oramai a corto di idee. Ma accettò il rifiuto e guardò oltre.

«Va bene, non ti preoccupare» rispose, dopodiché invocò il nome della sua cameriera.

«Genna!»

Quando la giovane donna si presentò nella stanza, il suo superiore le ordinò di accompagnare il pittore al cancello.

La donna eseguì la richiesta, intimò a Loris di seguirla alla porta. Quest'ultimo annuì, ma prima di lasciare l'Eden, si voltò per salutare l'uomo che posava per lui.

Gavriel, dacché ferito al cuore e nell'orgoglio, salutò a stento senza preoccuparsi di voltare il capo e guardare l'uomo che amava andarsene via.

Strozzò tra le dita la sigaretta e fumò dalle narici, tense gli occhi rigidamente dritti al proprio ritratto e pensò.

"Qual è la ragione di essere così bello, se poi non posso avere lui?"

Riconosceva di essere di bell'aspetto, nessun uomo si avvicinava al suo fascino. Eppure, Loris Anderson, non lo guardava nemmeno per incidente.

Non mostrava meraviglia, né alcun stupore. Quando veniva ritratto nudo, il corpo del pittore non reagiva, gli occhi restavano sempre concentrati sull'opera e la mente non sembrava lasciare la stanza.

"Che uomo di mistero" lo considerava.

"Che uomo arrogante" pensava Loris una volta salito sulla propria auto.

"Ho già capito che sei ricco, perché sbattermelo in faccia di continuo? Se hai i soldi per andare a vedere uno stupido museo, buon per te"

Arrivò a casa accompagnato da un'aria furibonda e frustrata, accecato dalla rabbia, non si accorse della presenza del vicino che lo stava salutando.

Entrò all'ingressò borbottando, sbatté la porta e si levò le scarpe.

Il figlio, vedendo il padre di cattivo umore, pensò di recarsi in salotto per accoglierlo.

«Ciao papà, che succede?» chiese, ma il padre anziché rispondere, domandò al figlio che cosa fosse la macchia scura che seguiva sopra la palpebra.

«È pennarello, mi sono macchiato» rispose William.

«Uff, quell'uomo mi dà su i nervi, è solo un narcisista ipocrita, vuole farsi notare continuando a darmi questi soldi extra. Mi ci pulisco con questi pezzi di carta, inoltre voleva portarmi a vedere un museo a Ontario, come se non ci fossi già stato due anni fa a mie spese» disse Loris sedendosi sulla poltrona.

«Allora perché proprio a te? Se vuole farsi davvero notare, donerebbe soldi un po' a chiunque» disse il figlio.

Ciò portò Loris a riflettere. Era vero, come mai proprio a lui?

Si domandò allora che cosa ci vedesse Gavriel in lui, forse temeva di perdere il suo pittore personale, come dichiarato d'altronde.

«Papà, la vicina ha bussato e suonato alla porta, l'ho ignorata ma mi ha visto dalla finestra» disse il figlio.

«Che voleva?» domandò Loris.

«Mi ha chiesto se volessi una crostata di mele che aveva preparato, io ho rifiutato ma lei ha continuato ad insistere. Non sapevo più come mandarla via così l'ho ignorata e basta. Se n'è andata via proprio tre minuti fa. Sai cosa? Io credo che tu le piaccia, chiede sempre di te»

Loris fece una smorfia e ci sorrise su.

"Per l'amor del cielo" sospirò.

Ma il ragazzo era più che convinto di quel che diceva, la loro vicina era innamorata pazza di suo padre e lo spruzzava da ogni poro.

«Sono in camera mia» disse Loris alzandosi e avviandosi già nel proprio rifugio.

Il figlio dichiarò di aver finito con lo studio, e chiese perciò se fosse libero di guardare la televisione.

Il padre, mentre saliva pesantemente le scale, si voltò e gli disse.

«Sì, va bene. Ma miraccomando, niente demenziali o roba varia»

"Televisione, nient'altro che una scatola ingravidata di menzogne e pagliacciate, falsa e manipolatrice. Rimbambisce e corrompe, semina desideri loschi o omicidi nella mente dei giovani, altera l'umore e il pensiero. Gioca con la testa e le parole, distorce la realtà e sopprime la fantasia" pensava Loris sulla televisione.

Se ne avevano una in casa, era solo per seguire le notizie del mattino o per guardare qualche vecchia cassetta. A William difatti, era permesso guardare solo quelle, cartoni animati a scopo informativo, con morali e insegnamenti per la vita quotidiana.

Mise sù la sua preferita "Furbo, il signor Volpe"

3.

Danzava allegra e scoppiettava animata, una flebile fiamma di una corta candela. Essa e le altre profumavano la stanza di calla, soffocando l'odore di pioggia e terreno.

Calda come sotto una coperta, c'era troppo da udire e osservare, ogni senso veniva sollazzato dagli elementi presenti in quella piccola cameretta.

Un giovane Loris, nel fiore dei suoi tredici anni freschi, osservava l'espressione pentita sul viso gonfio del fratello.

Se gli fosse stato concesso dal padre, gli avrebbe sputato addosso, avrebbe proseguito lui la punizione, e sempre sotto l'ordine del genitore, lo avrebbe fatto uscire dalla villa per fargli prendere la pioggia.

Quella graziosa villetta che, se vista dall'occhio di un passante, l'avrebbe confusa per dipinto.

Vivevano in un quadro, in un'immagine falsa.

Così era cresciuto quel fanciullo, tra gli schiocchi della verga, sotto le rigide regole e le sacre letture.

«Perché non sei come tuo fratello?»

Era una frase che sentiva dire spesso, la voce che la cantava era quella del suo adorato padre, venuto a mancare improvvisamente nel suo letto di morte poco tempo fa. Rigoroso e forte nell'animo, ma debole contro la malattia con cui stava lottato da tempo. La sua assenza era persistente, non abbandonava le memorie del figlio favorito, il quale pregava ancora per lui.

Ma dietro il pensiero susseguiva l'amaro e la tristezza, e fu costretto a svegliarsi.

Il cuore traboccò nel dolore e il calore di esso gli fece aprire gli occhi.

Aveva la camicia sbottonata, il petto che stillava sudore e dalla finestra non soffiava un briciolo di aria.

Con la cognizione del tempo scivolata dal palmo della mano, smarrita da qualche parte, Loris si strofinò gli occhi e guardò le dune delle lenzuola.

Per poco non riconobbe la propria stanza, il sonno gli aveva annebbiato la memoria.

Guardò l'orologio, l'ora di cena era già passata, di certo suo figlio si era arrangiato con ciò che si trovava già presente in casa.

Era abituato ai lunghi riposi del padre, era solito a prender sonno spesso.

Si appisolava in studio, in stanza o in soggiorno sulla poltrona. Dopodiché cadeva in un sonno profondo e si risvegliava dopo un'oretta o due. Non osava svegliarlo, poiché sapeva che faticava a prendere sonno.

Il sole si era coricato fin sotto il ventre dell'orizzonte, le vie del quartiere si erano fatte deserte e i vicini si stavano preparando per andare a letto.

Scoccarono le ventuno, Loris si trovava alle spalle del figlio, entrambi dinanzi allo specchio della stanza matrimoniale. In mano reggeva un pettine con cui passava i capelli del giovane, una ciocca dopo l'altra, li separava e li scioglieva da qualsiasi nodo.

Ma essi, ribelli e liberi, non si sottomettevano ai denti del pettine.

«Uno di questi giorni ti porto dal parrucchiere, non ne posso più di sti capelli» brontolò.

Ma il ragazzo, che tanto amava i suoi capelli, suggerì una nuova acconciatura piuttosto che un taglio.

«Posso farmi le treccine come Adric?»

Adric era un ragazzo moretto, aveva capelli lunghi e ricciolini, ma qualche volta se li faceva intrecciare.

«Non sono sicuro che ti doneranno» rispose il padre.

«Tu stai bene con i tuoi, e a me piacciono di più così»

Ma il figlio non concordò con l'idea del genitore, guardandosi allo specchio, immaginava già di avere in testa quelle complesse e meravigliose treccine stese lungo il capo. Ad Adric donavano molto ed era convinto che sarebbero donate pure a lui.

Loris nel mentre, raccolse i capelli del figlio all'indietro, sperando che sarebbero rimasti così. Ma dopo qualche secondo, essi tornarono subito dov'erano prima.

«Domani sera andrò dal signor Heinrich, festeggia il suo compleanno» disse con voce poco entusiasta.

«Posso venire con te?» chiese il ragazzo.

«Non mi tratterrò a lungo, giusto il tempo per fargli gli auguri di persona. Non mi piacciono le feste» rispose l'uomo, poi proseguì dicendo.

«Ho aperto il registro prima, devi imparare a memoria il proemio iliade per la prossima settimana. La ripeterai in mia assenza, quando ne avrò il tempo poi, ti ascolterò recitarla»

Disse l'uomo.

Non gli sfuggiva mai nulla, nemmeno una piccola notazione dei docenti passava inosservata agli occhi suoi. Sempre a scrutare e scavare nel registro elettronico, badava a tutto e si preoccupava sempre di rammentare al figlio ciò che doveva fare.

William era tentato di soffiare e issare gli occhi, ma quel gesto gli sarebbe costato molto caro, dunque si limitò a grattarsi le gambe, a rigarle con le unghie e pizzicarsi la pelle.

Torceva le dita dei piedi e irrigidì le spalle, il cuor suo palpitava di collera e lo stomaco si alterò.

Il padre questo non poteva vederlo, conosceva suo figlio esteriormente, ma era estraneo a ciò che accadeva dentro di lui.

L'odio che veniva miserabilmente prevalso dall'amore, Il fastidio, l'urto, il ribrezzo e la rabbia.

William barcollava tra un odio profondo e un affetto genuino verso il genitore. Una lettera o una smorfia, non erano in grado di poter esprimere ciò che sentiva.

Quando l'ardore si placò, il ragazzo rilassò le spalle e smise di tormentare la pelle.

Il padre, oramai finito con i capelli, aprì il cassetto in basso e porse al figlio lo sciroppo che a volte tendeva a dargli prima di coricarsi.

Il ragazzo aprì la scatola e consumò il solito quantitativo di liquido che beveva, il padre lo guardò assumere lo sciroppo e quando ebbe finito gli ordinò di mostrare la lingua.

Era un sciroppo molto amaro, pesante sul palato, aspro per la gola e rivoltante per lo stomaco. Donava un alito pungente, quasi come se l'intera farmacia si trovasse nella bocca del ragazzo.

«Quando smetterò di prendere questa medicina?» chiese.

«Di nuovo, non è una medicina, sono vitamine»

«Ma a cosa mi servono? Il dottore ha già detto che sto bene» disse perplesso, ma il padre, pienamente convinto di sé, gli rispose così.

«Sono io il tuo primo dottore, nessuno può conoscerti meglio di me. Sei fragile e minuto, il tuo corpo ha bisogno di vitamine per crescere. Vuoi restare basso così?»

William non ebbe nulla da dire al riguardo, lo specchio davanti a loro sosteneva le parole del padre, tuttavia non riteneva di essere fisicamente debole, e nemmeno basso.

«Io non sono debole...» disse.

«William, sono tuo padre, ti conosco, e so di che cosa hai bisogno. Se vuoi te ne prendo una meno amara, ma prima devi finire questa. Fallo per me»

Accarezzò il figlio e cercò di consolarlo con un sorriso, ma William era stufo di quel volto, stufo di quello sguardo fiero e sempre convinto.

Magari in un altro universo, gli avrebbe percosso una guancia o urlato addosso.

Ma si trattenne, conservò quella furia dentro di sé e ricambiò il sorriso.

«Vai a letto adesso, è tardi» disse, ma il ragazzo alzò gli occhi alla parete e guardò l'orologio.

«Posso stare ancora un po' sveglio? Ho sentito che questa sera manderanno in onda un bel film sul canale ventitré, ne stavano parlando tutti a scuola e io vorrei poterlo vedere»

Gli occhi teneri e scuri del ragazzo non intenerirono affatto l'uomo, era già abituato a quello sguardo, dunque sapeva come non farsi sedurre.

«Will, ne abbiamo già parlato» sospirò «Non voglio che tu ti metta a guardare quelle cavolate secolari. Lascia che gli altri parlino, tu non sei come loro, sei meglio. Non lasciarti affascinare dai loro vizi, che cosa dice Giovanni capitolo due versetto quindici?»

William gonfiò leggermente il petto è recitò il versetto al genitore.

«Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e l'orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo"»

Loris sorrise fiero, ignaro della collera che stava bollendo sotto la pelle del ragazzo.

«Adesso vai a dormire, buonanotte» lo baciò in fronte e si allontanò per dirigersi verso lo studio.

William ringhiò frustrato e fu tentato di afferrare il primo oggetto e scaraventarlo, ma considerò le conseguenze e si ricompose.

Temeva il castigo e il rimprovero, non voleva che suo padre scoprisse quello che veramente pensava di lui.

Era cresciuto sapendo che le regole sono regole, egli è l'adulto, il genitore. Non poteva andare in contro alla sua legge, non ne aveva fegato, diritto e capacità.

Sospirò, in un unico soffio, scacciò via la rabbia e il rancore.

Andò nella sua stanza, si coricò sotto le lenzuola e prese da sotto il materasso il telefono che Adric gli aveva regalato.

Con quello egli lo chiamava e insieme si parlavano a bassa voce fino a che li era permesso.

Si scambiavano parole d'amore, promesse e racconti.

«Mio padre non mi permette di guardare quel film, Adric sono stufo, non lo sopporto» confessò trattenendo le lacrime

Allora il ragazzo, dispiaciuto per l'amato, decise di porre il telefono accanto il proprio televisore affinché potesse udire le voci dei personaggi.

William chiuse gli occhi e si godette il sottofondo, anche se non poteva vedere, riusciva a immaginare quanto si stava svolgendo dall'altra parte.

Gli spari, le grida, gli scalpiti, i ruggiti dei motori e i boati delle esplosioni, zuccheravano di meraviglia le sue orecchie.

Era lì, tra le strade del deserto nel mezzo di un inseguimento. Il sole picchiava, la sabbia schizzava dalle ruote e le dune del deserto si ergevano man mano che l'inseguimento continuava.

Ma sapeva che tutto quello sarebbe poi sfumato via tale a un miraggio, suo padre sarebbe giunto da un momento all'altro per controllarlo. Non poteva rischiare di farsi cogliere in flagrante, quel telefono era molto prezioso per lui e non voleva perderlo.

Dunque chiamò l'amato e lo ringraziò per avergli fatto sentire parte di quel mondo.

«Domani te lo racconto tutto, promesso» promise Adric.

«Grazie, buonanotte» rispose William, e con malavoglia, chiuse la chiamata e ripose il telefono sotto il materasso.

Loris in tutto ciò, era chiuso in quella scatola di polvere e giornale, a dipingere volti incompleti e paesaggi vuoti. Era privo d'immaginazione, la sua ispirazione lo aveva abbandonato.

Un peso di nullità si abbatté su di lui, soffocò in una fossa e per l'ennesima volta si arrese.

«Perché non riesco a disegnare?»

Lasciò la tavola cadere a terra, irritato di sé, scaraventò anche il barattolo di pennelli.

«Forse non ne sei capace» rispose la donna, ammirando perplessa il bozzetto.

L'uomo la guardò e la rimproverò.

«Cosa ne può sapere una come te di arte?» chiese.

La compagna si adirò del termine e soffiò frustrata, dopotutto, voleva solo aiutarlo.

«Molto più di te. Non sai disegnare perché sei schiavo di un blocco, l'unico modo per uscirne è quello di non pensarci. Smetti di disegnare, disegna solo per quell'uomo. L'unica persona che sembra genuinamente amare la tua arte»

«Mi sento disperato, usare il mio talento per il suo piacere, quando dovrebbe essere una cosa mia» disse.

E la donna, con sorriso sfuggente e voce salata di disprezzo, guardò negli occhi l'uomo e pronunciò queste medesime parole.

«Sai perché non sai disegnare? Perché non dormi abbastanza, non hai riposo. E sai perché non hai riposo? Perché il Signore dice: non c'è pace per i malvagi»

Infuriato da tale oltraggio, l'uomo gettò addosso alla donna la tela, causandone così la scomparsa. Di lei non rimase che una sfumatura, un puntino in quella stanza vuota.

«Bastarda!» ringhiò furibondo, cedette sulle ginocchia e con le mani tra i capelli scoppiò a piangere.

Il figlio, allertato dal lamento del genitore, si avvicinò alla porta ma non osò entrare.

Bussò leggermente e chiese se fosse tutto apposto.

Solo allora Loris si rese conto del danno provocato, la tela che aveva gettato era cascata sopra i barattoli di acrilici e ora, un fiume di colori erano sparsi per il pavimento.

«Certo, tutto bene. Ora torna a dormire» rispose. Il ragazzo annuì e tornò a dormire.

Loris guardò nuovamente la stanza, il sol pensiero di dover ripulire tutto lo stancò, ma si fece forza e cominciò a ripulire il contrasto di colori.

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